da Londra
La sua storia è lalbero genealogico del rock blues bianco. Steve Winwood, il ragazzino prodigio, il piccolo Mozart del blues che a 15 anni suonava come un diavolo e cantava con voce potente che pareva coltivata a whisky di malto e sigarette, è ancora in pista sulla soglia dei 60 anni. Sè lasciato alle spalle le improvvisazioni ante litteram con lo Spencer Davis Group; il supergruppo Blind Faith con Eric Clapton e Ginger Baker (una variante dei Cream), i gloriosi Traffic con cui ha inventato un esplosivo pot purri sonoro a base di blues, rock, jazz, folk e chi più ne ha più ne metta. Porta con sé il tesoro di mille avventure - dalle incisioni con Jimi Hendrix a quelle con Joe Cocker - e, sulla soglia dei 60 anni, le trasforma in Nine Lives, album stregante nel riprendere le fila di un poderoso rock blues ricco di pathos e di evocatività erotica. Un sapiente incrocio di suoni bianchi e neri con lampi lirici e creativi come Hungry Man, Im Not Drowning o la viscerale Dirty City con la chitarra di Eric Clapton.
Una grande amicizia quella tra lei e Clapton.
«Già nei primi anni Sessanta tra noi cera un affiatamento fuori dal comune, sin da quando fondammo i Powerhouse per stravolgere il blues. Eric già allepoca era un musicista inimitabile; nessuno come lui colorisce i suoni della chitarra».
Come vi siete ritrovati?
«Lo scorso febbraio abbiamo organizzato tre show al Madison Square Garden di New York, dove tenemmo il primo concerto americano dei Blind Faith. Dopo 40 anni abbiamo fatto tre volte il tutto esaurito, perché la nostra vita è unavventura, un eterno blues. E lo stesso avvenne a Chicago lanno prima».
Così è nata lidea dellalbum?
«Da cinque anni non incidevo, e ho sempre pensato che non esiste unetà per il rock se hai le idee chiare. Si intitola Nine Lives perché contiene nove brani che riassumono la mia vita ed è dedicato a tutti gli amici che non ci sono più: da George Harrison a Jimi Hendrix».
Comera Hendrix?
«Il diavolo con la chitarra. Se Eric era raffinato lui era una furia, mi riempie di orgoglio aver suonato con lui in Electric Ladyland, uno degli album più rivoluzionari della storia. Abbiamo inciso al volo, senza nemmeno provare, in pratica dal vivo, come lui amava fare. George Harrison invece era riflessivo, ricco di carisma e di dolcezza».
Steve Winwood non è una star sotto i riflettori ma un mito: le va bene o ha qualche rimpianto?
«Non chiederei di più dalla vita, e comunque i riflettori non mi sono mai interessati. Oggi tutti parlano di contaminazioni tra gli stili; bella scoperta! Il rock nasce da una contaminazione con il blues e il jazz. Quando lo capii, ascoltando Muddy Waters e Howlin Wolf, trovai subito la mia strada».
Quando la trovò?
«Non sono mai stato bambino. A 14 anni suonavo nei pub il boogie e lo skiffle nella band di mio fratello Muff. Lì mi scoprì Spencer Davis ed entrai nella sua band».
Da lì il successo?
«Sì, fin troppo. In molti hanno inciso i miei pezzi; pensi che tanta gente crede che Gimme Some Lovin sia un originale dei Blues Brothers».
È il brano che ha dato vita al movimento Blue eyed soul.
«Una magia alchemica per mettere insieme improvvisazione, folk, blues, rock, poesia: insomma i Traffic».
Lei è uno ha inventato la figura del compositore rock.
«Beh, alle canzonette di tre minuti presto ho sostituito composizioni lunghe, articolate, che passavano dalla psichedelia al melodismo. Insomma la canzone progressiva con luso anche di strumenti inediti come flauto e sax. Altri come Van Morrison, Eric Burdon, Ian Anderson hanno fatto la stessa cosa»».
Le mancano i Traffic?
«Mi manca Jim Capaldi, morto tre anni fa. Ricordo che, quando suonammo a Roma negli anni caldi, scoppiarono incidenti, volarono botte e molotov.
Progetti?
«Un tour mondiale con Tom Petty e, appena possibile, qualche concerto con Clapton, per non perdere il vizio».
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