«La mia vita con Giorgio Faletti e quelle nozze tutte da ridere»

Per 14 anni accanto al comico, cantante, attore. «Il sindaco che ci sposò mi chiamò con nomi diversi. E lui gli chiese: Mi ha già reso bigamo?»

di Nino Materi

Roberta Bellesini è stata per 14 anni la moglie di Giorgio Faletti, senza mai stargli un «passo indietro». Lei gli è stata accanto. Come fanno le vere donne di valore, quando dividono la vita con un vero uomo di valore. E Giorgio lo era: artista tra i più versatili (attore, cantante, scrittore) di un'epoca così recente da distinguerne ancora perfettamente i contorni.

Oggi Roberta abbina l'attività professionale con la gestione di ciò che riguarda la memoria del «suo» Giorgio Faletti. Che però è anche il «nostro» Giorgio: cioè di tutti quegli italiani che, in 40 anni di carriera, hanno apprezzato le doti intellettuali e umane di Faletti. Qualità esaltate dall'ironia - anzi, dell'autoironia - che distingue i comici normali dai grandi umoristi. Perché è facile fare battute sugli altri, più difficile scherzare su se stessi quando il destino non ha voglia di farti ridere. Accanendosi, cattivo, contro di te.

«Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare». La frase di John Belushi nel film Animal House, Faletti è riuscito a praticarla nel momento più drammatico.

«Era in coma - ricorda Roberta -. Finalmente si svegliò. Le macchine a cui era attaccato facevano parecchio rumore. Giorgio socchiuse gli occhi e, per prima cosa, gli venne una battuta: Ma mi avete ricoverato in un casinò di Las Vegas?. I medici scoppiarono a ridere». Figuriamoci poi cosa poteva essere Faletti nei momenti felici. Un esempio. «Nel giorno del nostro matrimonio - racconta Roberta - il sindaco che celebrava le nozze civili continuava a sbagliare il mio nome. Ogni volta mi chiamava diversamente. Allora Giorgio gli disse: Caro sindaco, mi ha reso bigamo ancora prima di sposarmi?».

Roberta, cosa prova parlando di Giorgio?

«Fino a qualche anno fa, riascoltare la sua voce mi faceva male. Ripercorrere il cammino fatto insieme era doloroso. Ma più recentemente quell'angoscia è sparita. Adesso sono felice di raccontare Giorgio. Di impegnarmi per evitare che venga dimenticato».

Una paura, quella dell'oblio, che in lui era ricorrente.

«Temeva che le sue opere non resistessero alla prova del tempo. Invece...».

Invece?

«Ha quasi più ammiratori oggi di quando era in vita».

La prova che è rimasto tra noi.

«È bello parlare di Giorgio per ciò che ha fatto quando era in vita, ma è altrettanto bello parlare di lui e dei suoi lavori per quello che ancora possono dare».

Un'esistenza piena di gratificazioni in cui lei ha ricoperto un ruolo importante?

«Eravamo complementari. Ci siamo amati. Dal primo all'ultimo giorno».

Lei è molto più giovane di Giorgio.

«È vero. Ma tra noi il ragazzino era Giorgio».

Con lo zainetto sempre sulle spalle.

«E un sorriso che ti riempiva l'anima».

Eravate entrambi di Asti, vi incrociavate spesso?

«Mai visto. Non sapevo chi fosse».

Come vi siete conosciuti?

«In casa di amici. Guardando la finale degli Azzurri agli Europei di calcio».

Era il 2000. Come scoccò la scintilla?

«Stava per uscire Nonsense, il suo quinto album. Me ne parlò con un entusiasmo che mi colpì. E da allora cominciammo a vederci».

Seguirono 14 anni di vita insieme.

«Con Giorgio sempre pronto a rimettersi in gioco. A sperimentare. In perenne ansia da prestazione».

Lei ha messo ordine nella sua vita?

«In un certo senso sì. Giorgio è diventato più metodico, sistematico».

Pur rimanendo un vulcano di idee.

«Quelle non gli sono mai mancate. Un dono».

Quando le chiese di sposarla?

«Era ricoverato in ospedale. Io gli dissi: Richiedimelo quando sarai guarito. Accettare adesso sarebbe circonvenzione di incapace».

Beh, in quanto a umorismo, anche lei non scherza...

«Vivere accanto a Giorgio senza essere ironici sarebbe stato impossibile».

«Io uccido», primo di una lunga serie di best seller, ha venduto 5 milioni di copie ed è stato tradotto in 35 lingue.

«Lo scrisse in appena tre mesi. Un genio».

Nel giorno della presentazione ufficiale del libro fu colto da ictus.

«Una strana coincidenza».

Quel malore fu determinato anche dalle sciocchezze che si dicevano in giro, tipo che «Io uccido» non l'avesse scritto lui.

«Non credo. Paradossalmente la mancanza di promozione del libro accentuò il suo successo».

In che modo?

«Il passaparola tra i lettori si rivelò più efficace di qualsiasi operazione di marketing».

Ma è vero che Giorgio aveva pensato di firmare il romanzo con uno pseudonimo?

«È vero: voleva firmarlo George Bed-Maker, la traduzione maccheronica in inglese del suo cognome: Giorgio Fa-letti». 

Lo scrittore americano Jeffery Deaver ha detto di lui e del suo lavoro: «Uno come Faletti dalle mie parti si definisce larger than life, uno che diventerà leggenda».

«Era orgogliosissimo di questo giudizio. Anche perché Deaver era uno dei suoi miti letterari».

Creativo. E mai volgare. Neppure quando interpretava lo «sceriffo» Vito Catozzo, quello di «Porco il mondo che c'ho sotto i piedi» o «Che se io saprei che mio figlio mi diventerebbe orecchione, vivo ce lo faccio mangiare il certificato di nascita...».

«Come comico poteva vivere di rendita, non lo ha mai fatto. Non era nella sua indole raschiare il fondo del barile. Quando capiva di aver dato tutto si tuffava subito in un'altra avventura».

Accadde così anche con il successo a Sanremo di «Signor tenente».

«All'inizio non si era reso conto della bellezza di quella canzone».

Un brano fuori dagli schemi.

«Il testo era forte e l'idea di associare le parole a una musica minimale era davvero innovativa».

Giorgio autore anche per Mina, Branduardi, Masini e tanti altri

«Abbinare testi e melodia gli riusciva naturalmente».

Giorgio attore. In «Notte prima degli esami» dice una frase cult: «L'importante non è quello che provi alla fine della corsa, ma quello che provi mentre corri».

«È una frase fuori copione, ideata proprio lui. Che il regista Brizzi trovò bellissima inserendola subito nella sceneggiatura».

Il nonno di Faletti era un antiquario e raccoglieva oggetti antichi, opere d'arte, mobili e libri.

«Giorgio, da bimbo, trovò anche un baule zeppo di gialli. Il suo amore per i thriller cominciò lì».

Ma Giorgio aveva una passione segreta di cui nessuno ha mai parlato?

«Quella per la pittura. Conservo in casa un suo quadro. Stile informale-ironico».

Cosa rappresenta?

«Una bandiera americana che si disintegra».

Un messaggio politico?

«L'impegno di Giorgio non era quello legato a una logica di partito, ma si ispirava a un più alto concetto di impegno civile e sociale».

Altri quadri originali?

«Spartiti musicali dipinti e bandiere nazionali reinterpretate».

Un approccio che, forse, avrebbe incuriosito il nostro comune amico Carlo Vanoni, apprezzatissimo critico d'arte controcorrente.

«Giorgio ha fatto molte mostre. Uno sperimentatore anche in questo campo».

Quando si trasferì a Milano, Faletti frequentò i corsi della neonata scuola teatrale milanese «Quelli di Grock», fondata da Maurizio Nichetti.

«Incominciò la carriera come cabarettista nel locale milanese Derby negli anni '70, nello stesso periodo in cui sul palco del locale circolavano Diego Abatantuono, Teo Teocoli, Massimo Boldi, Paolo Rossi, Giorgio Porcaro, Francesco Salvi, Enzo Jannacci».

Nel 1985 entrò nel cast di «Drive In» e poi a «Striscia la notizia» in coppia con Lando Buzzanca.

«L'apice della popolarità».

Nel 1990 partecipò a «Fantastico» con Pippo Baudo , successivamente a «Stasera mi butto... e tre!» con Toto Cutugno .

«Era lanciatissimo. Ma anche fragile. Aveva bisogno di continue rassicurazioni».

Seguirono altri dieci anni di successi. Nel 2003 la scelta di sposarvi. Non vi è mai mancato un figlio?

«No. Giorgio amava i bambini. Ma forse non era tagliato per fare il padre».

Perché?

«Perché Giorgio stesso era un bambino...».

In che senso?

«L'entusiasmo. Il sorriso. Gli occhi celesti. Erano quelli di un bimbo».

E poi quell'approccio sempre positivo alla vita.

«Era abituato a vedere il mezzo bicchiere sempre pieno. Una volta, quando era malato, mi disse: Vabbè, a un altro sarebbero servite tre vite per avere le mie soddisfazioni».

Nel suo ultimo post aveva scritto: «A volte immaginare la verità è molto peggio che sapere una brutta verità. La certezza può essere dolore. L'incertezza è pura agonia».

«Il giorno dopo ci lasciò».

Che rapporto aveva con la fede?

«Era convinto che esistesse un altrove».

Ma non in un senso strettamente cristiano.

«Pensava che nulla si crea e nulla si distrugge. E che ci fossero altre energie».

Una filosofia sublimata nello spettacolo «L'ultimo giorno di sole» in tour da oltre 4 anni. Canzoni e musiche pensate per un'attrice sua amica, Chiara Buratti e affidate alla cura di un'altra sua amica, Andrea Mirò, moglie di Enrico Ruggeri.

«Abbiamo debuttato il 4 luglio 2015 esattamente a un anno dalla sua scomparsa. Una rappresentazione che è stata premiata perfino a New York all'Italian Theater Festival».

Giorgio se l'è portato via un tumore il 4 luglio 2014, a 63 anni. Lei ha trovato in un cassetto il racconto «La ricetta della mamma». L'ha prima portato in libreria e poi ne ha tratto un corto.

«Con protagonisti Giulio Berruti e Andrea Bosca. L'abbiamo presentato all'Asti Film Festival. Il pubblico ha gradito».

Ne «La ricetta della mamma» c'è un sicario che s'introduce in casa di un uomo per uccidere un testimone di giustizia, ma viene tradito dalla buona cucina... Il cibo, altro pallino di Giorgio.

«È stato un creativo perfino davanti ai fornelli. Celebri le sue cene tra risate e intingoli».

Una passione mutuata dalla madre.

«Riusciva a mettere assieme gusti apparentemente contrastanti, ma che poi, magicamente, si armonizzavano».

Dalla mamma Giorgio aveva ereditato pure il senso dell'ironia.

«Erano legatissimi. Non potevano fare a meno l'uno dell'altra. Anche se il loro rapporto è a volte conflittuale. Forse perché avevano lo stesso carattere».

Era figlio unico.

«Il papà morì presto e Giorgio si è sempre occupato anche della mamma».

Giorgio sosteneva che «essendo un comico, la sua esistenza poteva solo essere comica».

«La sua vita, la nostra vita insieme, sono state molto di più».

Nell'ultima intervista

disse: «Sul mio epitaffio scriveranno: Qui giace Giorgio Faletti, morto a diciassette anni. Ho tanta energia e voglia di mettermi in gioco. Non ho paura di rischiare».

«La summa del suo pensiero. E, un po', anche del mio».

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