MICHELANGELO ZIZZI Il fuoco sacro della poesia

L’11 settembre e il nostro destino nel poemetto «Del sangue occidentale»

Nel 1990 apparve come un miraggio un libriccino di poesie intitolato La casa cantoniera. Ne era autore un venticinquenne di Martina Franca di nome Michelangelo Zizzi. Dico «miraggio» in quanto la silloge di Zizzi, lodata pubblicamente da Dario Bellezza e Franco Buffoni, e giudicata da Maurizio Cucchi «uno dei tre o quattro lavori migliori dei poeti della sua generazione», rimase un libro inesistente per ben dieci anni, fino a quando non fu pubblicato dall’editore Stampa. Finalmente esisteva in Italia qualcuno che osava andare oltre il giochino linguistico per cui molte poesie recenti assomigliano a pagine d’enigmistica. Zizzi superava tutto ciò con il trionfo dell’immaginazione: «Le camere hanno soffitti variabili di nubi/ la canzone ha le stazioni in cielo/ e dimore tra pergolati di nuvole/ c’è qualcuno che suona per il ritorno dei sogni/ le clessidre si infrangono a terra/ e la sabbia senza giunture inventa le favole dei paesaggi».
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Non posso dire di essere del tutto estraneo al pregiudizio secondo cui i poeti devono per forza assomigliare ad un incrocio tra Leopardi, il Gobbo di Notre-Dame e quell’odioso compagno di banco, il primo della classe, che copriva con l’avambraccio la versione di latino, nei mezzogiorno sfilacciati della nostra adolescenza. Ogni volta che conosco un poeta senza gli occhiali, un accenno di gobba e l’alito cattivo, ne resto affascinato. Ma l’incontro con Zizzi, due mesi fa, a Lecce, è stato inconcepibilmente superiore ad ogni attesa.
Zizzi ha una pancia importante, il viso rotondo, e un cespuglio di capelli che lo fanno assomigliare a Napo Orso Capo o al cantante dei Cugini di Campagna. Se un poeta deve essere timido e silenzioso, allora Zizzi non è un poeta; ed infatti si presenta sotto la qualifica improbabile di medico omeopata. Dire che abbiamo preso a chiacchierare non renderebbe giustizia al nostro primo rendez-vous: ingollando una serie incalcolabile di Johnny Walker, quella strana creatura mitologica (che pareva gonfiarsi di minuto in minuto, come fosse il genio che lentamente evapora dalla lanterna) ha acceso tutti assieme i suoi fuochi d’artificio, occupando, in una fredda serata pugliese, tutto il tempo e tutto lo spazio. Quando ci si abitua al suo eloquio, dopo i primi istanti di sconforto, si resta come ipnotizzati: e la vasta teoria di lemmi inauditi e associazioni al limite del dadaismo, concorrono a formare un arazzo sonoro di persiana intricatezza.
Tornato a Roma, ho voluto saperne di più di quell’incantatore di serpenti. Pare che uno dei suoi divertimenti prediletti sia quello di irrompere alle presentazioni librarie e far volare ceffoni. Si racconta di quando una volta Zizzi se ne stava placidamente seduto in platea mentre ascoltava un poetino di quelli con gli occhiali e il difetto di Quasimodo. Questo tipo di scrittori - ci tengo ad avvisarvi - vanno evitati come la peste. Non credete alla loro esibita timidezza, alla loro monacale sobrietà. Appena hanno davanti un microfono, essi riescono a far apparire Napoleone un tipo modesto. E infatti quello, cosa fa? Si lancia in un’invettiva contro i «poeti ufficiali» e commette un pauroso errore di sottovalutazione quando, indicando il nostro, aggiunge: «Gente come Zizzi, ad esempio, è ora che scenda dal piedistallo». Gli attimi immediatamente successivi, nel ricordo dei testimoni, restano uno dei momenti più alti della nostra critica letteraria. Lo Zizzi, infatti, come un gatto invitato da un topo ad entrare nella sua tana, si leva in piedi e urla: «Penso che invece di scendere dal piedistallo, salirò sul palco e ti spaccherò il c...!». Detto fatto. Un’apoteosi.
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La casa cantoniera uscì troppo in ritardo. Dieci anni dopo la sua composizione, il libro aveva perso quella spinta, per così dire «pubblicitaria», che avrebbe consentito a Zizzi di diventare una voce riconosciuta. Resta il fatto che la sua è una voce importante. Nel 2002 ha pubblicato La primavera ermetica; un altro libro significativo, ma gettato colpevolmente nel dimenticatoio. Pochi mesi fa è stata la volta di Del sangue occidentale (LietoColle).
È, quest’ultimo, un poemetto che, nelle intenzioni dell’autore, fa parte di un poema più vasto, iniziato all’indomani dell’attentato dell’11 settembre e ancora da concludere. Avviso subito i lettori: nulla è più lontano da Zizzi della retorica della pace e della retorica della guerra. Al centro dell’opera è una riflessione sull’Occidente, simboleggiata da quella New York in cui i pionieri giunsero un tempo «su sfasciate botti di vino d’Olanda/ per drenare le incostanti fonti/ da pulviscoli pepite fortune/ sbollendo col conio delle pentole/ i legumi del profitto». Lo sguardo di Zizzi sul nostro mondo, prima e dopo la tragedia, è tutt’altro che indulgente: siamo illarvati «nei trionfali assiomi/ della libertà vaniloquente», e le «blatte sonnecchianti» ci «azzannano nei cuscini democratici/ con filami di sartoria genetica». New York è una lunga teoria di «magazzini sterminati/ che contavano tutte le stelle conosciute/ misuravano parametri,/ i passi che è possibile gettare sui pianeti vicini,/ calcolavano le maree economiche del pianeta/ per prevenire l’infarto delle banche/ le discese tachicardiche delle borse».
Questa porzione occidentale, così descritta, la voce narrante abita. Si direbbe che vuole viverci. O gli tocca. Il che è lo stesso. Malgrado il giudizio negativo fino all’apocalisse, il mondo che si propaga dalle Torri Gemelle fino alle province dell’Impero, fino alle coste del Mediterraneo, è il suo, il nostro; non somiglia «a quegl’altri umani/ burroni del disfacimento/ che noi scarnano, scarneranno». L’Armageddon dell’11 settembre è un «colpo di biliardo»: Manhattan è un panno verde su cui stanno le biglie celesti, sfere bocciate «in buchi del non dire nero» in quel mattino in cui comparve la notte «come l’ago, l’infezione che dai cieli crolla/ l’iniezione di aculeo d’oppio/ che lo scorpione morfinico infila».
Dentro questo scenario, Zizzi procede in un dialogo muto con una donna, Sofia, che è l’incarnazione della femminilità: la Sophia-Pistis della tradizione gnostica: «Nella caduta occidentale così/ saremo, Sofia, resteremo», scrive. Il suo abbraccio, mentre il mondo brucia, è il chiavistello «per aprire estati/ anatomie o atlanti assoluti»; ha il potere di far dimenticare, «così che la caduta dell’Occidente/ mi pare ora una sorta di lapsus,/ un respiro latente,/ una figura della retorica».
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Se doveste decidere di spendere 10 euro per un libro in versi, vi suggerisco di andare a caccia di questo Del sangue occidentale.

Così come il suo autore, che quando arriva a passo svelto alle presentazioni ha il potere di gettare nel terrore lo scrittorucolo di turno, questo libro è insieme una scossa elettrica data alla poesia italiana contemporanea e la consustanziazione di un sogno che ormai si credeva proibito: quello per cui una poesia possa interpretare al meglio, e ridarcelo come nuovo, il mondo in cui viviamo.
E, mi raccomando: se un certo dott. Zizzi dovesse intercettare in qualche modo la traiettoria di un vostro malanno, datevi a gambe levate!

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