«Le mie modelle? Adesso sono spettri»

«La prossima mostra, a settembre, è tutta sul dolore, strano soggetto per un modaiolo, no?» aveva detto qualche mese fa in un'intervista proprio su queste pagine - dove ne dava per la prima volta l'annuncio - Giovanni Gastel, il fotografo più intimamente novecentesco che Milano abbia avuto, collaboratore di Guerlain, Dior, Nina Ricci, Elle e Vanity Fair, nipote con i suoi sei fratelli di Luchino Visconti e signore appartato ed elegante come un proprietario terriero, solo che qui la terra in questione è l'immaginario collettivo degli ultimi decenni, un segmento di anima, un caleidoscopio di sogni.
E settembre è così arrivato. Ieri è stata presentata la mostra «Maschere e Spettri», che oggi verrà aperta al pubblico al Palazzo della Ragione (lunedì ore 14.30-19.30, da martedì a domenica ore 9.30-19.30, giovedì ore 9.30-22.30), Skira ha stampato il catalogo e a noi il soggetto «dolore» appare sempre meno strano, così come agli occhi di Gastel stesso. Sarà la crisi morale e finanziaria, il fangoso e ambiguo clima politico, il precoce autunno nell'aria e certe vie cittadine insolitamente fredde sul far della sera. Sarà che Milano è diventata, in questi mesi, sempre più sensibile al dolore psichico e paradossalmente più forte, più dimessamente reattiva.
«Sarà che questa mostra, più che un progetto, è oramai diventata una necessità interiore - ci dice Giovanni Gastel -. Quando feci le prime fotografie sul dolore sentii che per me era arrivato il tempo di veicolare la fotografia per esprimere delle tensioni profonde. Eccoci qui, dunque. È stato un piccolo salto mortale. Ci tengo a dire che non è una mostra contro la moda, alla quale sono grato e che continuo ad amare profondamente».
Che cos'è, allora?
«Per tutta la vita mi sono difeso dal mondo attraverso la fotografia e rifugiandomi nella moda, che è un universo onirico, se si vuole, ma per certi versi accogliente, dove la malattia non esiste, il decadimento fisico non viene preso in considerazione, il sangue men che meno. È come se fossi rimasto a lungo in una stanza buia reinventando ogni giorno la realtà. Gli echi violenti dell'esterno mi raggiungevano, certo, ma non li mettevo sulla pellicola, non ne facevo arte».
E poi?
«Anche grazie al rapporto con Germano Celant, mi sono chiesto: c'è qualcosa di cui vuoi parlare al di fuori della moda? La risposta che mi sono dato è stata una presa di consapevolezza di un tema che avevo nell'animo da molto tempo. Ricorda la poesia di Umberto Saba dove racconta di una capra sofferente e che il belato dell'animale era fraterno al dolore del poeta che la guardava? A un certo punto si legge: "Ed io risposi, prima per celia, poi perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia». Il dolore è uno dei grandi universali. La risposta alla sua domanda dunque è questa: un uomo deve guardare i propri fantasmi, non solo difendersene».
Nella mostra, il cui progetto architettonico è stato realizzato con molta partecipazione da Franco Raggi, questo dolore è palese nei corpi delle modelle, che lei fotografava in ben altro modo...
«Il cambio di registro infatti è stato difficilissimo. Il rischio era quello di affrontare un tema così alto con una fotografia tipo "reportage". Fare del dolore, involontariamente, una specie di telegiornale fotografico. Poi mi sono reso conto che si poteva affrontare questo argomento come la pittura ha fatto per secoli. La tecnologia digitale mi è stata di grande aiuto. Come sempre sono partito da un banco ottico, ma poi ho rivisto gli scatti al computer. Per alcuni è un'eresia. Per me è un'arte mediana del tutto nuova, tra fotografia e pittura. Gli interventi digitali su una fotografia ne cambiano il significato, la creatività non termina con lo scatto, inizia soltanto da lì. Anzi, c'è un punto, nel ripasso digitale, in cui devi importi di fermarti, perché potresti passare la vita, vertiginosamente, su una sola immagine».
Le modelle come hanno reagito?
«Bene. Come sempre quando si chiede loro di essere più attrici che "portatrici di vestiti". Intuivano che cercavo anche in questo caso, paradossalmente, di fare immagini "belle". È tutto quello che ho sempre cercato in fotografia e nella vita: mantenere l'armonia anche su un tema disarmonico. Certo, sono immagini inconsuete, persino violente; chi ha stampato le foto mi ha detto: "Non riesco a guardarle per più di cinque minuti". E ricordo il commento di una modella davanti a uno scatto: "Sembra che io sia morta da appena un quarto d'ora". Sta di fatto che da questa mostra la donna, pur sofferente, ne esce più come protagonista che come semplice e a volte stupido oggetto di ammirazione».
Ma perché tutta questa etica in un settore «gratuito» come l'arte?
«Veniamo da una tale fase di deserto morale che penso siamo entrati in un periodo di ricostruzione, anche noi artisti.

I momenti di crisi servono anche a questo: a prender consapevolezza che nessuno di noi vive in camere separate, che nessuno è una cellula isolata, ma fa parte di un organismo più grande. Dobbiamo relazionarci col mondo, anche quando farlo ci costa una concreta fatica e persino un disagio».

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