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Migliaia di messaggi «Bravi, tenete duro»

Chiara Bornacin: «Io non pensavo di fare la madre, ma la bambina aveva un disperato bisogno di famiglia»

Suona sempre il telefono in casa Giusto, a Cogoleto. Il cellulare, il fisso... ancora il cellulare. E suona il campanello: è il postino, che ormai è di casa nell’elegante palazzo di fronte alla chiesa parrocchiale. «Guardi qui, telegrammi da tutta Italia, fax che arrivano in Comune, lettere alla chiesa», dice Chiara Bornacin con gli occhi lucidi. «È gente che ci sta vicino e in questo momento, per noi, è importante».
Il tempo stringe. Ieri suo suocero, Aldo Giusto è stato convocato dai carabinieri e oggi sarete in tribunale dal procuratore capo Francesco Lalla.
«Le forze dell’ordine fanno il loro lavoro con il massimo della delicatezza possibile e con tanta umanità. Sono padri di famiglia anche loro e siamo sicuri che nella malaugurata ipotesi che trovino Maria non ce la strapperanno dalle braccia. Ma noi speriamo, con l’aiuto di Dio, che non la trovino».
Cosa ha detto suo suocero ai carabinieri?
«È stato chiamato e lui ha deciso di andare: il bene della bambina viene prima di tutto. Ma lui non sa nulla».
Vi preoccupa l’ostilità di altre famiglie che stanno attendendo l’adozione?
«Guardi, tra le manifestazioni di solidarietà che abbiamo avuto ci sono anche quelle di tante famiglie che come noi hanno conosciuto i bambini della bielorussia. Ci hanno detto: “fate bene ma non vogliamo esporci perché abbiamo paura”. Lo sappiamo che c’è paura da parte delle altre famiglie. Soprattutto dopo che il governo bielorusso ha stabilito di bloccare i viaggi dei bambini in Italia. Io però vorrei ricordare che l’ambasciatore aveva detto a tutti che non ci sarebbero state decisioni di blocco sui bambini. Il caso di Maria non deve essere preso a pretesto».
Di cosa?
«Di ritorsioni su bambini che hanno già sofferto tanto».
Quando ha ospitato per la prima volta Maria, lei voleva trovare una scappatoia per l’adozione?
«Per carità: io non pensavo di dover fare la mamma, avevo meno di trent’anni, non mi sentivo pronta. Mi ero preparata un discorsetto in bielorusso dove dicevo che noi eravamo i suoi amici italiani e che lei avrebbe fatto una vacanza da noi. Ma la bambina ha cominciato a dire niet, niet io dico te mama e te papà. Se dicevamo di no lei si chiudeva nel silenzio. Poi una psicologa ci ha consigliato di assecondare il suo bisogno disperato di famiglia».
Oggi la solidarietà da dove vi arriva?
«Ce la danno in tanti. Si figuri che abbiamo ricevuto telegrammi dai nostri professori del liceo: “Ragazzi fate bene, continuate così!”, ci hanno scritto. Ma ci hanno chiamato anche tante famiglie normali da Roma, Rimini, dalla Toscana.

Il caso di Maria ha colpito tanti papà e mamme che capiscono cosa possa significare l’affetto di una famiglia per far crescere bene un bambino».

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