Davide Gianluca Bianchi
«La mia forte inclinazione per l'architettura mi ha fatto considerare, in ogni tempo, quell'arco interrotto che prefigura la incompiuta “più grande” cattedrale di Siena, come la bellissima e simbolica sfida dell'uomo al suo destino mortale». Così scriveva di sé Gianfranco Miglio nel 1987, quando, al compimento del settantesimo anno di età, gli allievi raccolsero alcuni suoi scritti nel volume Le regolarità della politica (Giuffrè) e gli chiesero delle «Considerazioni retrospettive» da collocare in premessa. In queste bellissime parole c'è molto di Gianfranco Miglio, per via della madre discendente di quei maestri campionesi che realmente furono iniziatori di cattedrali.
Il politologo comasco è deceduto il 10 agosto 2001, dopo che ormai da tempo non versava più in buone condizioni di salute, a causa dell'ictus che l'aveva colpito nell'ottobre dell'anno precedente. Sono già trascorsi cinque anni dalla morte di uno dei più discussi intellettuali degli ultimi decenni, riduttivamente considerato l'ideologo della Lega, o almeno della prima fase del movimento di Bossi. Per superare, si spera definitivamente, questa etichetta è forse il caso di ricordare che in una memorabile conversazione con Marcello Staglieno, avvenuta a Plattenberg il 2 gennaio 1984, Carl Schmitt lo definì «il maggiore tecnico delle istituzioni e l'uomo più colto d'Europa».
Miglio è stato un grande intellettuale, e al più gli si potrebbe rimproverare di non aver scritto in misura proporzionale alla sua statura. Disponeva di una imponente biblioteca privata di almeno 30mila volumi (che oggi stanno riordinando e catalogando gli allievi più giovani sotto la guida del figlio Leonida) da cui traeva le sue informazioni scientifiche. Questo tesoro era, in parte, il prodotto del personalissimo insegnamento che il professore aveva tratto dal Sessantotto: «La contestazione studentesca \ unita ad una sana diffidenza per il comportamento dei miei simili, mi confermarono in una decisione che avevo già da tempo adottato: gli strumenti di lavoro, la documentazione e i libri necessarî per condurre le indagini progettate, dovevo averli, per quanto possibile, a personale disposizione nella biblioteca privata \». E così, assiso nel suo studio dietro ad una scrivania circolare a forma di pulpito, affiancato dai due ritratti di coloro che considerava i campioni assoluti del realismo politico, Machiavelli e Hobbes, prendeva a scrivere servendosi della sola letteratura classica della «politologia concettuale», per lui costituita dai testi irrinunciabili di un insieme di discipline accademiche che andavano dalla storia delle dottrine politiche e alla scienza politica, dal diritto internazionale alle relazioni internazionali, dalla scienza dell'amministrazione alla storia delle istituzioni, con non poche incursioni nella storia tout court e in quella locale, nell'economia politica, nell'antropologia e nelle scienze sociali in genere. Insomma, un vero intellettuale onnivoro ed estremamente esigente con se stesso, autore che prima di scrivere una sola riga «scientifica» perlustrava, «come una vecchia volpe batte il suo territorio di caccia» (sono sempre sue parole), bibliografie sterminate.
Nella ricorrenza del primo lustro della morte Rubbettino ha mandato in libreria la prima biografia, con ambizioni di completezza, che sia stata scritta sulla figura di Miglio, di cui è autore Giovanni Di Capua: Gianfranco Miglio. Scienziato impolitico, prefazione di Giancarlo Galli, pagine 295, euro 14). Il testo è utile, ma largamente lontano dal raggiungere l'obiettivo, e in un certo senso costituisce solo il controcanto di quel Gianfranco Miglio, storia di un giacobino nordista (Liber internazionale), scritto nel l993 da Giorgio Ferrari, tanta è l'insistenza dell'autore nel mettere in evidenza gli addentellati democristiani del Miglio pre-leghista.
Sarebbe più corretto invece restituire la figura di Gianfranco Miglio alla dimensione scientifica, l'unica che gli competa veramente. Del resto, anche solo rileggendo oggi i «sette comandamenti» che Miglio riportava nel suo Io, Bossi e la Lega: diario segreto dei miei quattro anni sul Carroccio (Mondatori, 1994), presentandoli come proprio contributo alla conduzione della prima fase del movimento padanista, ci si rende conto di quanto Miglio fu sempre scienziato più che politico! Ma per riconsegnare Miglio alla scienza è necessario che, sullo slancio di questa importante ricorrenza, si realizzino presto alcuni progetti migliani di primaria rilevanza scientifica, e cioè: la pubblicazione di quelle Lezioni di politica pura, frutto della registrazioni dei corsi di scienza politica che Miglio teneva all'Università cattolica di Milano come ordinario della disciplina e preside della facoltà di scienze politiche; la pubblicazione del ricco carteggio privato che comprende almeno venti lettere con Carl Schmitt, e alcune missive scambiate con figure del calibro di Norberto Bobbio, Bruno Leoni, Alessandro Passerin d'Entrèves, Giovanni Sartori; la catalogazione della ricchissima biblioteca privata, la cui conoscenza puntuale è anch'essa necessaria.
In via di prima approssimazione, cosa dire dello scienziato Gianfranco Miglio? Sicuramente che è stato in Italia il più lucido teorico della profonda dissonanza fra la sfera pubblica, dominata dall'obbligazione politica e da relazioni umane di carattere verticale, e più banalmente dalla politique politicienne con i suoi necessari «patti di fedeltà», e la sfera privata, area in cui i rapporti sono ordinati dal contratto-scambio (secondo il linguaggio migliano), per sua natura orizzontale e paritario, strumento neutro, tinteggiato unicamente dagli interessi degli attori implicati.
L'altro dato che emerge dalla lettura degli scritti è la sua vocazione a essere quel genere umano che Johan Huizinga chiamava Homo ludens.
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