La miglior critica musicale è come un rock

Frank Zappa, gran provocatore, diceva dei critici rock: «Sono persone che non sanno scrivere, che intervistano gente che non sa parlare per gente che non sa leggere». E la critica americana, quella vera, lo ha preso sul serio, trasformando la scrittura rock in un genere letterario. Contro chi scrive su riviste «per consumatori» e tratta il rock come puro divertimento, contro gli accademici che lo intellettualizzano spogliandolo della sua gioia e della sua furia. Uno stile che è fuori sintonia con l’ethos di pace amore e musica degli anni ’60 e con il parlarsi addosso degli anni ’70. L’ultimo caposaldo di questa tendenza è la rivista Loops (appena uscito il primo numero della versione italiana). Una raccolta di saggi in cui troviamo dieci intense pagine su Nick Drake dipinto come un moderno «giovane Werther», uno spaccato del blues anni ’20 attraverso il collezionismo dei 78 giri, un estratto dal nuovo romanzo di Nick Cave, un racconto su Paul Simon. Esempi di uno stile che è diventato genere letterario quando mensili specializzati come Creem hanno chiamato Charles Bukowski e Truman Capote a recensire i concerti dei Rolling Stones. Esagerazione? Piuttosto questione di radici e cultura. Insomma rock e dintorni sono una roba terribilmente seria al di là del suono, anche se c’è chi sostiene che il disco «trascende il bisogno di spiegazioni o analisi critiche». La scintilla del nuovo linguaggio nasce da scrittori come Tom Wolfe, Norman Mailer, Terry Southern, lo stesso Capote, Hunter S. Thompson che con il soprannome di Dr Gonzo lo farà battezzare «giornalismo gonzo». Questi autori fondevano narrazione e reportage sulle pagine di Esquire o dell’Herald Tribune. «La scoperta, all’inizio umile, era il fatto che si poteva scrivere per un giornale come se si stesse scrivendo un romanzo», disse Wolfe, che così prese a scrivere articoli sul rock, mentre Thompson pubblicava su Rolling Stone il suo romanzo Paura e disgusto a Las Vegas ispirandosi a Sulla strada di Kerouac.
A loro si accodarono ragazzi ribelli e strafatti, proprio per questo illuminati, che cambiarono il giornalismo rock. Il più bizzarro fu Lester Bangs (l’uomo che scrisse: «Il rock è mito. La realtà non esiste» e la cui biografia Firmato Lester Bangs è un illuminante caposaldo della follia letteraria nel rock) insieme con i cosiddetti «Noise Boys» Richard Meltzer e Nick Tosches (insieme giocavano a interpretare il ruolo di Kerouac, Neal Cassady, William Burroughs). Poi c’erano gli storici come Greg Shaw e Lenny Kaye, i superautorevoli Greil Marcus e Jon Landau. Marcus e Landau sono i più noti ma Bangs è il più geniale. «Non fu il pioniere della critica musicale - scrive DeRogatis - ma la perfezionò. Tanti provarono a copiarlo senza riuscire a imitare le metafore oltraggiose, i giochi di parole, l’occhio ai dettagli con cui metteva a nudo le star». Bangs si spinse al limite e morì (si autodistrusse) consumato dal rock che per lui era vita (quando la sua casa prese fuoco, scappò in mutande preoccupandosi di salvare solo un disco dei Public Image Ltd), passione, odio e amore. Una missione per cui sacrificarsi. Anche in questo la critica rock prende le distanze da quella ufficiale. Bangs scriveva nell’81: «La musica oggi è senz’anima, fraudolenta come i meccanismi che avallano la bugia che tutti traggano ispirazione da essa. Non so più cosa scrivere.

Il rock è l’unica cosa di cui m’importa ma non posso far finta di trovar avvincente la scelta tra le pappette e il fango». Un po’ come diceva George Orwell: «Recensire è un lavoro irritante e ingrato. Il recensore getta alle ortiche, un po’ alla volta, il suo spirito immortale».

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