A Milano i pm non vogliono un capo da fuori

Dice Michele Saponara, consigliere laico del Csm, a lungo parlamentare del centrodestra: «Ho votato Bruti Liberati perché è un magistrato di grande equilibrio ed un uomo aperto al dialogo». Certo, che la Procura di Milano venga affidata ad uno dei fondatori di Magistratura democratica grazie al voto determinante del Popolo della libertà è un evento che con gli schemi consueti sarebbe difficile da spiegare. Ma il voto che l’altro ieri ha indicato a larga maggioranza Edmondo Bruti Liberati a capo dell’ufficio che fu di Mani Pulite ha le sue radici in una situazione per molti aspetti anomala: quella che da più di vent’anni fa della Procura milanese una sorta di repubblica autonoma, recalcitrante ai condizionamenti del potere politico e pronta a scontrarsi con esso.
Questa voglia di autonomia è così forte che a memoria d’uomo la Procura milanese - ed è forse l’unico caso in Italia - non ha mai avuto a capo un magistrato proveniente da fuori: e ogni qualvolta una candidatura «forestiera» è stata avanzata (come è accaduto anche in questi giorni) l’alzata di scudi è stata tale da convincere gli aspiranti a lasciare stare. E la tradizione, a dire il vero, viene da ancora più lontano, dai tempi in cui di magistratura scomoda non si poteva proprio parlare. Procuratori di Milano furono negli anni Settanta Enrico De Peppo, che aprì la strada al trasferimento a Catanzaro del processo per la strage di piazza Fontana sostenendo che «la città è in mano ai rossi», e dopo di lui Mauro Gresti: uomo di grande accortezza, attento ai buoni rapporti con il Palazzo, accusato dai suoi pm di insabbiare e ostacolare le indagini scomode come quella sui fondi neri dell’Iri. Ma il potere di Gresti non era scalfibile. Come inattaccabile e quasi eterno sembrava il potere dell’altro grande vecchio del palazzaccio milanese, Piero Pajardi, giurista autorevole e andreottiano di ferro, presidente prima del tribunale e poi della Corte d’appello.
Nel 1987 Gresti andò in pensione, e al suo posto pochi mesi dopo arrivò Francesco Saverio Borrelli. Pajardi rimase ancora a lungo al suo posto. A segnare la fine del suo regno fu - guarda caso - una intervista a Repubblica proprio di Edmondo Bruti Liberati che lo accusava senza mezzi termini di avere creato un «gruppo di potere» all’interno del palazzo, favorendo l’ascesa di personaggi come Diego Curtò, giudice dalla mazzetta facile. Pajardi si dimise, e da lì a poco morì.
Da quel momento in avanti, la «autosufficienza» della magistratura milanese è stata finalizzata ad un unico obiettivo: tenersi le mani libere, garantirsi la possibilità di andare allo scontro con il potere politico senza condizionamenti. Dopo la lunga epoca di Borrelli, il posto di procuratore è stato occupato da un magistrato di sinistra come Gerardo D’Ambrosio e da un moderato come Manlio Minale, ma la sostanza non è cambiata.

E ora, al momento di dare il cambio a Minale, la componente politica del Csm ha dovuto scegliere tra un «cane sciolto» poco avvezzo alla politica come Ferdinando Pomarici, e una toga di sinistra ma (come dice Saponara) «aperta al dialogo» come Bruti: e non ha avuto dubbi. Si potrebbe sintetizzare così: se proprio ci devono pestare i piedi, che almeno gli si possa parlare al telefono...

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