«Milano, o cara Non devi avere paura»

L’ex sindaco ricorda successi e «incompiute» del suo mandato e chiede più coraggio ai suoi successori

U n quarto di secolo, lira più lira meno. A Milano c’erano i danée, quelli del Dopoguerra e degli anni del boom, che nei confronti del dollaro perdevano come un bambino a poker al tavolo dei grandi. Un quarto di secolo dall’ultima giunta repubblicana: la guidò Pietro Bucalossi. Un quarto di secolo è durata l’era del Garofano a Milano: Aniasi, Tognoli, Pillitteri, in non rapida successione. Poi arrivò Borghini, che alla sinistra era legato a doppio filo, alla fine ci pensarono Di Pietro, Borrelli, Colombo, Davigo, Ghitti. In una parola: il pool. In un’altra: Tangentopoli. Fumo negli occhi per i socialisti.
Era finita un’epoca, Milano aveva fatto da pioniera rispetto al resto d’Italia. In tanti la chiamarono seconda repubblica anche se la Costituzione non cambiò mai. Oggi, molti di quei perseguitati di ieri stanno ancora con Tonino, che nel frattempo ha buttato la toga, si è dato alla politica, schierandosi con la gauche, ovviamente.
La Milano anni Settanta era quella dell’austerity: domeniche a targhe alterne, benzina alle stelle, oltre le 300 lire al litro. Oggi costa quasi dieci volte tanto e le domeniche senz’auto si chiamano ecologiche. Negli anni Ottanta Milano era «da bere». Yuppie, moda ed edonismo reaganiano.
Paolo Pillitteri quelle Milano le ha viste e le ricorda tutte. Nel ’63, con un giovane Craxi aiuto regista, aveva girato un film sull’immigrazione: Milano o cara.
Oggi di Bettino resta un affetto profondo, il portachiavi, migliaia di foto e i ritratti alle pareti che si fondono con i Promessi sposi, riscritti da mano ferma, in miniatura, a prova di monito. Il Pilli che adora lo Joseph Roth della Cripta dei cappuccini l’Olmi dell’Albero degli zoccoli più della Leggenda del santo bevitore, il Pilli che promuove Gomorra libro e film, boccia Il divo perché «Andreotti non può essere banalizzato così», il Pilli che adora Paolo Conte e ascolta Sting, il Pilli che confessa a Rostropovic il suo amore per Rachmaninov. Presidente della Triennale a 28 anni, divenne assessore e portò Maurice Bejart a danzare al Castello. Infine fu sindaco fino al 1991: «Ero tornato dagli Stati Uniti, vado al cimitero per i Morti e un giornalista mi dice: “Sulla Fiera non avete i numeri“. Interrogai i 16 partiti: uno voleva Assago, l’altro Lacchiarella, l’altro ancora Pero. Io - dissi - sono per Rho. Votarono: io andai a casa. E adesso la Fiera è a Rho».
A gennaio arrivò Borghini, poi Formentini, Albertini e la Moratti. Come vedi il dopo-Pilli?
«Si è parlato di risanamento dei conti. Quando lasciai, avevamo chiuso in attivo per la prima volta. Ma obiettivamente: di chi era il merito? Il bilancio del Comune dipende dai trasporti, un capitolo che solo la Regione può ripianare».
La buccia di banana dei tuoi successori.
«Sempre i trasporti. Avevo studiato tre linee metropolitane dopo la gialla: per 15 anni non hanno avuto la capacità di continuare con la stessa forza. Ora il progetto parte, ma hanno buttato tre lustri. La metrò è la salvezza, senza Milano collassa. Per farne una servono otto anni. E invece aspettiamo l'Expo...».
Quale effetto ha avuto Mani pulite?
«Tangentopoli ha piegato la città, gli amministratori hanno avuto paura. Da qui il blocco».
Che cosa ti sarebbe piaciuto fare che hanno poi fatto loro?
«La nuova Bovisa e la Triennale: Rampello è bravissimo. Noi avevamo iniziato a smantellare i gasometri, era la svolta».
La cultura langue, di chi è la colpa?
«Un mistero. Non si riesce a far decollare Brera. Restiamo senza un museo di arte contemporanea ma soprattutto abbiamo sette università, ma non sappiamo ottimizzare le potenzialità»
Proteste, più che proposte...
«Ci vorrebbe un assessore al raccordo universitario. I giovani vanno aiutati e responsabilizzati»
Ce la possiamo fare?
«Si con l’aiuto di Aem e grandi aziende come Telecom, Mediaset, Ligresti. La cultura paga, cultura significa turismo».
Com’è la città multirazziale?
«Sto con Maroni, le impronte ai bambini rom vanno prese. Costerà, ma va fatto».
Non sarai diventato leghista?
«Resto un liberalsocialista craxiano, detesto il sinistrismo becero»
«Capto frequenza d’intolleranza», si potrebbe dire prendendo in prestito una canzone, «Milano Milano» degli Articolo 31...
«Questa città ha avuto grandi problemi e li ha risolti, risolverà anche questo. La paura non la paga chi vive in via Spiga, ma chi sta in periferia»
Ci sono immigrati in edifici occupati, continua la musica...
«Adesso sono sempre meno: li cacciamo via. Nel Sessanta l’immigrazione fu la grande occasione: anche allora la gente era arrabbiata poi i meridionali sono diventati milanesi. La città l’hanno costruita anche loro. È questo il vero miracolo a Milano. Oggi però gli immigrati sono troppi e senza controllo».
Traffico denso e ripenso al motivo per cui vivo tra il grigio di questo cemento.
«Parole impressionistiche ed esatte, ma Milano cambia».
Gli sciuri imboscati dietro sicuri giardini privati.
«Ricorda Paolo Valera. Alla fine dell’800 scriveva le stesse cose. La scapigliatura è la grande madre».
Dai quartieri duri ai locali tra troie e avvocati.
«Questo è il ritratto di oggi».
L’industriale si droga poi vota chi dice che la droga fa male...
«Di droga ce n’è troppa. La cocaina ha preso il posto dell’eroina. Io sono antiproibizionista, ma non ho più certezze».
Saldi fuori stagione in Montenapoleone, bambini sniffano colla alla stazione.
«Volevo fare un documentario sui bambini alla Centrale, ma non è stato possibile, mi chiedo però dove siano i bambini milanesi: al computer?».
Nel tuo veleno che noi respiriamo ci sono anch’io Milano Milano.
«L’inquinamento è una vergogna, ma non è solo milanese. Eppoi con più metropolitane...».


Come una goccia nel mare mi ritrovo al mio posto e devo a te quello che sono e alle luci di un tramonto sopra piazza del Duomo.
«È una dichiarazione d’amore. Siamo sicuri che chi gira con la cresta e i capelli viola non abbia niente di buono da trasmettere?».

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