Addio a Nanni Svampa il cantore di una città che ormai non c'è più

Ora tutto diverso: invece dei risotti si mangia sushi e le case dei nostri nonni sono occupate

Simone Finotti

C'è da scommettere che ora, lassù, Nanni Svampa sta già insegnando agli angeli a cantare in milanese. Magari invitandoli a una delle sue lezioni-concerto che hanno divertito generazioni di appassionati, facendo riscoprire anche ai più giovani un patrimonio tradizionale inestimabile, destinato purtroppo a venire immolato sull'altare di uno scomposto - e a volte illusorio- multiculturalismo.

I tempi cambiano, i loro poeti se ne vanno e, dopo tanto cantare, stavolta «il gallo è morto» per davvero. Ironia della sorte, l'anima dei «Gufi» ci ha lasciato nel bel mezzo di un sabato sera di tarda estate, uno di quelli in cui, nella Milano a misura d'uomo che lui tanto amava, si sarebbero ripopolati i «trani» in fondo a via Marghera dopo il rientro dei vacanzieri. Rumori di case di ringhiera, colori di panni stesi a filo, sapore di milanese impanata col manico, risotto giallo e vino di fiasco. Come la barbera a 16 gradi in cui Svampa affogava le testine d'agnello fra aneddoti, accordi di chitarra e ricordi di Brassens. «Chi è che dis ch'el vin el fa mal l'è tutta gente de l'ospedal. Io ne ho bevuto tanto e non mi ha fatto male», intonava, cantore di una Milano più semplice, meno sofisticata, in cui il vero «social» erano le chiacchiere nei bar e nei cortili. Una città che bastava a se stessa e di cui ci si accontentava con orgoglio, senza pretendere di trovarvi Londra, Parigi, Barcellona, New York, Tokyo. Con buona pace di chi, ora, lungo i Navigli ci va per mangiare il sushi e fare l'happy hour. Mentre quelle case di corte, per cui i nostri nonni hanno tanto sgobbato, adesso sono occupate, e interi isolati della Milano che fu hanno l'aspetto di anonime banlieue, dove domina l'incuria e i coltelli hanno preso il posto delle sane, catartiche scazzottate cantate dal Nanni, che finivano immancabilmente con una sbronza intorno a un tavolo. Ma ora «le coq est mort» e, con lui, una città intera è passata dalla cotoletta all'aperitivo, dalla bella gioventù del «mangiare e bere» ai malati di fitness, dalle liti di cortile alle faide fra gang. Così quelli di Svampa sono rimasti 79 lunghi anni di pura poesia da affidare alla memoria. Anche perché, avrebbe cantato lui, «bej cume num la mama ne fa pù», belli come noi la mamma non ne fa più.

Era nato nel 1938, sotto il segno dei Pesci, in una Porta Venezia popolare. Conobbe la guerra e, da bimbo, sfollò a Porto Valtravaglia, sul Lago Maggiore. Tornò a Milano per studiare, maturità scientifica e laurea in Bocconi: «In Bocconi ci andavo a spizzichi», ricordava. La sua passione era un'altra: figlio di padre brillante e apprezzato barzellettiere, esordisce a 5 anni ma, preso dall'emozione, finisce per dire la battuta principale una volta giù dal palcoscenico. Commercialista mancato, si definiva «il chitarrista più incapace della Val Padana», ma le sue doti di musicista non sono mai state in discussione. La folgorazione risale al 1959: a Roma assisté a un concerto di Georges Brassens e da lì decise di «mettersi al servizio di un grande poeta». Ecco lo Svampa che conosciamo: gli anni del boom del cabaret, in una Milano fucina di talenti come Fo, Jannacci, Gaber, Walter Valdi, Cochi e Renato; l'esperienza de «I soliti idioti», l'amicizia con Magni, Brivio e Patruno e l'avventura coi «Gufi», pionieri del rock demenziale, che si sciolsero (come i Beatles) nel 1969, dopo essere saliti dal buio delle cantine alla ribalta delle reti tv nazionali. Ma il destino del Nanni era Milano.

Troppo autentico e poco propenso ai compromessi per farsi interprete nazional popolare, si dedicò a mettere in musica l'anima meneghina.

Il suo testamento artistico è racchiuso nella dozzina di album di «Milanese-Antologia della canzone lombarda»: da «Porta Romana bella» a «El purtava i scarp de tennis». Speriamo che i nostri figli ne facciano tesoro.

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