Cronaca locale

Addio al partigiano che ideò quelle tute blu di via Osoppo

Fu il protagonista della rapina che passò alla storia, a 90 anni è morto Gesmundo (detto Jesse il Bandito)

Luca Fazzo

E adesso ne manca uno solo: il capo, Ugo Ciappina. Poi dei sette uomini che una mattina di febbraio del 1958 cambiarono la storia criminale di Milano, resterà solo il ricordo. Il penultimo, Arnaldo Gesmundo, se ne è andato l'altro ieri, a novant'anni suonati. Se Ciappina era il capo militare della banda di via Osoppo, Gesmundo alias Jesse il Bandito era il creativo. Sua era stata l'idea che divenne il marchio di fabbrica dell'impresa: le tute blu. «Con le tute eravamo tutti uguali - raccontò anni dopo in una intervista - era difficile contarci, distinguerci». Intuizione fulminante, con sessant'anni di anticipo sulla «Casa di carta».

Della faccenda delle tute, a dire il vero, Gesmundo offrì anche una seconda spiegazione, più intrigante: disse che l'idea gliela aveva data Stalin che prima della rivoluzione assaltava le banche con le divise da guardie zariste. E altri dettagli raccontano come quelli di via Osoppo si portassero dietro quel mito un po' autoassolutorio, le rapine per finanziare la rivoluzione. Loro, a botta calda, si guardarono bene dallo sventolare una qualsiasi ideologia. Quando li arrestarono, e poi durante il processo, si comportarono da onesti malavitosi. Niente a che fare con la sceneggiata che pochi anni dopo avrebbero interpretato altri gangster famosi, Sante Notarnicola e Pietro Cavallero, i Banditi a Milano che accolsero la condanna all'ergastolo intonando a pugno chiuso «Figli dell'officina». Ciappina e Gesmundo le loro idee le tenevano per sé, fedeli alla tradizione taciturna della ligèra: «un uomo è padrone dei suoi silenzi e schiavo delle sue parole».

Che il retroterra fosse quello, però, ci sono pochi dubbi. Almeno per Ciappina e Gesmundo. Il primo si era svezzato al mitra facendo il partigiano nei Gap e dopo la Liberazione era transitato direttamente dalla Resistenza alla mala. Stesso percorso per Gesmundo che dai repubblichini era stato arrestato e torturato. Erano giovanotti cresciuti nel mito della Resistenza tradita, poco disposti a deporre le armi. Per il momento, si dedicavano alle rapine. Ma che la repubblica dei Soviet fosse ancora a portata di mano non avevano smesso di sperarlo. Tanto che fu Ciappina, qualche anno dopo, a venire convocato da Giangiacomo Feltrinelli nella sua villa del Garda per fornire all'editore e al suo gruppo i primi rudimenti di tecnica guerrigliera.

Entrambi, una volta scontata la condanna per la rapina di via Osoppo, continuarono a fare - in attesa della rivoluzione - l'unico lavoro che sapevano fare. Un andirivieni tra piccoli colpi, arresti, accuse ingiuste: come quando Gesmundo venne incriminato per un colpo in cui era morto il suo amico Romano Perego, detto Fifì. Eppure Jesse aveva un alibi perfetto, visto che era in cella. Ma quando si diventa un mito, un bandito da prima pagina, sono inciampi che vanno messi in conto.

Per anni, Jesse è rimasto fedele alla linea del silenzio. Poi, con gli anni, ha ceduto anche lui come Ciappina a quel po' di vanità che porta i vecchi gangster a raccontarsi. Insieme a Matteo Speroni, scrisse Il ragazzo di via Padova. Che non era solo la sua autobiografia, ma anche una vivida carrellata su quegli anni della malavita milanese. E visto che aveva ormai 84 anni e poco da perdere si tolse un paio di sassolini nei confronti di due figure importanti della polizia milanese, il commissario Mario Nardone e il maresciallo Ferdinando Oscuri. Nomi che oggi dicono poco, ma che negli anni Sessanta venivano celebrati come eroi della lotta al crimine. Ma Gesmundo raccontò come, dopo l'arresto per la rapina, erano riusciti a farlo confessare: botte su botte, torture interminabili inflitte da Oscuri senza che Nardone muovesse un dito. «Fu peggio di quanto passai da ragazzo nella caserma fascista della Ettore Muti».

Del suo passato, della sua vita dedicata all'illegalità, Gesmundo mostrava talvolta qualche ripensamento, come inevitabilmente accade al momento dei bilanci.

Ma non nascondeva la sua ammirazione davanti ad una rapina ben fatta, senza chiasso inutile e senza fare male a nessuno: come quella che lui aveva inventato in un inverno lontano come la rivoluzione.

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