Via Adriano: chiuse le indagini sul rogo

Dieci residenti indagati. Il pm «declassa» l'accusa, si va verso il processo

Cristina Bassi

Una «spedizione punitiva», un «gesto vendicativo». Oppure uno «sgombero» fatto da privati cittadini esasperati, seppur con metodi sbagliati, là dove le istituzioni erano in grave ritardo. Arriva a una tappa cruciale l'inchiesta sul rogo del 4 settembre 2016 nel tristemente famoso palazzo abbandonato di via Adriano all'angolo con via Mulas. Il pm Gianluca Prisco ha chiuso le indagini, ha inviato l'avviso ai dieci residenti del quartiere indagati e sarebbe intenzionato a chiedere il rinvio a giudizio. È qui che accusa e difesa mettono in tavola le proprie carte. Partiamo dalle mosse della Procura. Prisco ha deciso di riqualificare l'accusa più grave: da incendio doloso a violenza privata. La pena prevista per il primo reato va da tre a sette anni di carcere, per il secondo fino a quattro anni. Gli indagati, si legge nell'avviso, «muniti di liquido infiammabile, appiccavano piccoli focolai sui giacigli di fortuna allestiti all'interno dell'edificio in modo da renderli inservibili e costringere i dimoranti abusivi ad abbandonare l'edificio». Erano le 17.30 e i dieci uomini, tra loro anche un cittadino ecuadoregno, presumevano che lo stabile fosse deserto. Nessun incendio, comunque, sarebbe il ragionamento della Procura, si è sviluppato. Le altre accuse sono di aver portato con sé quattro «cipolle» esplosive e (solo per uno degli indagati) di avere uno sfollagente. Oggetto trovato in una perquisizione successiva nell'auto dell'uomo.

Lo stabile di via Adriano è ricovero di disperati, senzatetto, clandestini, pregiudicati, da anni, da quando l'impresa che lo stava costruendo per farci una Rsa è fallita. Oltre al degrado sono tantissimi gli episodi di furti, danneggiamenti, spaccio e aggressioni segnalati dentro il palazzo e nella zona intorno. Tra gli altri lo stupro ad agosto scorso di una ragazza di 25 anni nei locali abbandonati da parte di un pregiudicato marocchino. Più volte i residenti hanno chiesto al Comune lo sgombero e la messa in sicurezza definitiva. L'ultimo intervento della polizia locale è proprio di pochi giorni fa.

La risposta della difesa di sei degli indagati, rappresentata dall'avvocato Maria Teresa Zampogna, è un'istanza inviata al pm il 20 febbraio. Il legale chiede che l'ipotesi di reato più grave sia ulteriormente declassata a «esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose» (articolo 392 del Codice penale). «Si è trattato - si legge nella memoria difensiva - meramente di un gesto idoneo ad attivare uno sgombero da un'occupazione abusiva, per la messa in sicurezza del quartiere: facoltà e doveri spettanti alle Istituzioni Pubbliche, attivate invano più volte». Insomma, una reazione alla «totale mancanza di sicurezza del quartiere» ma «senza alcuna intenzione di far male ad alcuno». Non solo. Il reato ipotizzato dal difensore è procedibile dietro denuncia-querela, che però non c'è stata (il soggetto titolare del diritto in questo caso sarebbe il curatore fallimentare). La richiesta che ne consegue è di archiviare l'inchiesta.

Riguardo alle quattro «cipolle»: sarebbero state «in cattivo stato di conservazione» e sarebbe quindi plausibile che si trovassero già nell'immobile. I filmati agli atti infine mostrano i sei indagati inclusi nella memoria arrivare a piedi e «a mani vuote».

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