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«Ancora sul palco a Milano come ai tempi di Strehler»

L'attore presenta all'Elfo i suoi «Sei personaggi» di Pirandello «È un autore che continua a stupire il mondo, più di Shakespeare»

«Ancora sul palco a Milano come ai tempi di Strehler»

Ammettiamolo: i «Sei personaggi in cerca d'autore» sono, per il teatro, l'equivalente del Don Giovanni di Mozart o della Nona di Beethoven per la musica: ogni volta che esce una nuova versione, tutti a chiedersi cosa potrà mai aggiungere alle precedenti. Non facile il compito di Gabriele Lavia, in scena all'Elfo da stasera al 15, come regista e attore, con il geniale dramma pirandelliano, forte degli applausi del fiorentino Teatro della Pergola, di cui è consulente artistico, e del Carignano di Torino.

È un'opera rappresentatissima. C'era bisogno di una nuova lettura?

«La domanda vale per un dipinto, una statua, un film. Ma qui parliamo di teatro, un'arte viva che nasce e muore tutte le sere. Se stasera inciampo - spero non succeda- accade qualcosa di irripetibile. Questo è il teatro. C'è bisogno di rifare Via col vento? Forse no. Ma l'Edipo re, o i Sei personaggi sì, ogni momento».

Che Pirandello è il suo?

«Voglio rendere il senso di un'opera unica, di grande profondità filosofica e morale, con una struttura impossibile da imitare. Tutto il resto del teatro si può fare, persino io saprei scrivere un testo, per quanto brutto, ma questo no».

Che edizione ha scelto?

«Le più importanti sono quella del 1921 e del '25. Ho cercato di farle coabitare, inserendo anche qualche nota di Pirandello. Sono comunque rimasto fedele al testo. Che poi è il modo migliore di tradirlo».

Si sente più regista o attore?

«A differenza di molti colleghi, io sono un regista che fa anche l'attore».

Non è sempre stato così, però. Anzi, dopo Profondo rosso (1975) poteva addirittura scegliere il cinema.

«Io amo il cinema, ma adesso è in crisi. Pensa che tra 50 anni la gente ci andrà ancora? Il teatro, invece, non morirà mai, perché è quella strana cosa per cui l'uomo riconosce se stesso. Se Edipo si acceca in scena, lo spettatore sa di essere cieco di fronte alla verità».

E dai Sei personaggi cosa dobbiamo capire?

«L'impossibilità di rappresentare un assoluto umano, che al contempo è anche l'unica possibilità che ci è data: la meravigliosa condanna a dover interpretare la nostra vita».

Scritto di getto nel 1921, i Sei personaggi fece flop a Roma. Pochi mesi dopo, grande successo a Milano.

«Il pubblico romano era meno preparato. A Milano si capì subito la grandezza dell'opera, che poi stupì il mondo. Pirandello è un autore immenso. Più ancora di Shakespeare».

Milano è ancora una città a misura di teatro?

«Sì, e mi piace tantissimo, ci ho lavorato fin dagli inizi. Ho ancora vivo il ricordo di Strehler, che ospitò la mia prima regia al Piccolo e da allora venne a tutte le mie prime. Il giorno dopo mi mandava un fax con le sue osservazioni. Custodisco gelosamente l'ultimo, che mi inviò poco prima di andarsene. Era il più grande di tutti, senza paragoni, dopo di lui non c'è più vero teatro di regia. Era un poeta».

Lei a Milano

c'è anche nato.

«Sì, ma quello fu per sbaglio. I miei sono siciliani e durante la guerra mio padre, ferito sul fronte albanese, fu trasferito qui in ufficio. Dopo pochi mesi mia madre lo raggiunse e nacqui io, nel 1942».

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