È una mostra enciclopedica The feeling of Things, la personale di Matt Mullican che da giovedì e fino al 16 settembre invade (in senso letterale) le navate di Pirelli Hangar Bicocca. Come per tutte le cose belle, l'esposizione curata da Roberta Tenconi richiede tempo e fatica: il primo passo è entrare e dotarsi di mappa. Parliamo di 5.500 metri quadrati e di qualcosa che si presenta come la più grande retrospettiva mai realizzata sull'artista californiano, famoso fin dagli anni Settanta per l'uso dell'ipnosi nella pratica performativa. Mullican, 67 anni, alto, capelli e barba bianca ben curata, dopo mesi di meticoloso lavoro a Milano dice che qui, in fondo, c'è tutto il suo studio: l'Hangar è atelier e sogno insieme. Anzi: «è il luogo dove ho messo dentro tutto ciò che sono».
Aggirandosi nello spazio, si capisce che non è un modo di dire. Camminiamo dentro un apparente labirinto scandito in cinque aree di diverso colore, così come vuole l'estetica di Matt Mullican. «Ho il mio mondo, la mia cosmogonia, un mio Dio: non vuol dire che non sia interessato a capire quale sia il tuo», dice. Vero: tutto si può dire di lui collezionista compulsivo, sperimentatore, ossessivo classificatore ma non che sia criptico. Il desiderio di comunicare si traduce nella precisione dell'architettura che scandisce la mostra: si comincia con l'area rossa, dedicata alla comprensione soggettiva. Un suggestivo labirinto di lenzuoli con scritte e disegni ci presenta «that person», quella persona, il suo alter ego: sono lavori ripetitivi, ipnotizzanti, allucinati. Si esce e subito cambia il registro: l'area nera è quella del linguaggio e su tavoli di legno sono presentate decine e decine di foto e raffinate opere su carta. Sono idee, progetti, alcuni realizzati altri no, che Mullican conserva nel suo Notebook. Solamente questa sezione varrebbe come sua enciclopedia artistica: a noi che guardiamo, provoca una vertigine. Impossibile star dietro a tutto. Procediamo nell'area gialla, deputata al mondo della scienza e dell'arte: troviamo lavori sviluppati al Mit di Boston, tra città virtuali e architetture immaginarie, mentre la sezione blu, contigua, è quella forse più immediata perché raccoglie teche luminose con immagini di vedute realizzate al computer, a testimonianza della varietà di interessi di Mullican, insaziabile in questa sua fame di conoscere, analizzare, catalogare (presenta anche il suo studio ideale: uno spazio quasi monacale). L'area verde è invece dedicata al mondo naturale: ancora sorprese perché mai, in una mostra così, si penserebbe di trovare pietre, insetti, animali impagliati. E invece. Accanto a questa parte da museo di scienze naturali, macchinari (alcuni provenienti dal Museo della Scienza e Tecnologia di Milano) e due splendidi cartoni («Light Patterns», lavori degli anni Settanta) spiegano come l'artista indaghi la teoria della percezione visiva.
Il viaggio intorno al mondo di Mullican termina nell'area del Cubo, separata dal resto: è la sua personale Cappella Sistina, tappezzata di disegni che paiono pittogrammi (tra cui i mirabili fogli in bianco e nero del «Dallas Project») e tavole incise, tratte dall'enciclopedia.
Dagli anni Settanta alle opere degli ultimi mesi, Mullican ha la dote di restituire con i suoi segni grafici l'anima al mondo, sia esso un cartello stradale, un vetro, un pezzo di plastica. Nel suo personalissimo atlante, ci conduce fin dentro «The feeling of things», lo spirito primordiale delle cose: se ne esce confusi e un po' tramortiti. Grati tuttavia per la riflessione generosa e mai banale.
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