Cronaca locale

Il barbiere che fu accusato di essere l'untore del '600

Via Gian Giacomo Mora ricorda il popolano vittima di false imputazioni torturato e ucciso

Stefano Giani

Avvolto in un barracano e nascosto dietro un cappellaccio si aggirava fosco, camminando rasente il muro. Pioveva. Un rapido cenno di saluto a un passante, tirando dritto dalla Vetra in Camminadella. Dalla peste al Coronavirus, ossia in 390 anni, i nomi sono rimasti uguali. E in quel remoto 1630 il commissario di sanità Guglielmo Piazza - a un dipresso quello che oggi sarebbe un ispettore - ignorava bellamente ciò che stava per accadergli. Ovverossia che una massaia, ignota ai più allora come oggi, ma identificata in Caterina Trocazzani, vedova inconsolata e certo inacidita di un tal Alessandro Rosa, acchiappò il tizio che camminava per via e ben conosceva e si fece dire chi fosse quel lugubre figuro, già a spasso di primissima mattina.

Se sia stata lei a denunciare o il Capitano di Giustizia a estorcere una confessione non è chiaro ma dalle carte degli interrogatori emerge che i giudici trovarono una testimone. Anzi due. L'altra - Ottavia Persici, sposata a Giovanni Bono - aveva confermato la versione della collega di femminil mestieri e crudeli spiate. Piazza finì al fresco e nulla gli fu scontato in nome della carica che ricopriva. Piuttosto attirò odio. L'uomo che doveva censire le abitazioni dei milanesi superstiti o vittime della «morte nera» si risvegliava con l'accusa di essere un untore. Le beffe della malasorte fecero il resto e alla storia non passò lui ma un ben più umile e modesto barbiere, chiamato in correità dal pubblico controllore.

L'unguento che teneva in mano quella maledetta mattina di giugno gliela avrebbe data lui. El perucchée. Ovvero Gian Giacomo Mora, con bottega in un vicolo stretto e lungo oltre le colonne di San Lorenzo. Di lì a un pugno di passi. L'equazione insomma era semplice. Fin troppo semplice. Il tosacristiani - che all'epoca era a un tempo un salotto per galantuomini e un dottorino di serie B, a metà strada fra un alchimista e un farmacista, capace però di confezionare rimedi caserecci contro ogni malanno - ebbene il tosacristiani aveva messo a punto il preparato che l'odiato Piazza spargeva sui muri della città per diffondere il morbo e moltiplicare i morti. Con buona pace di chi restava e gran guadagno di mobili e immobili.

In tribunale il caso andò per le spicce, troppo facile per sprecare energie e ore preziose. In fondo serviva solo che quei manigoldi ammettessero colpe ed errori per mandarli sulla forca. Così Piazza incolpò Mora, il quale fu arrestato senza remore di onta o offesa a privacy e diritti civili e trascinato via come un cane. Anzi, peggio. Il processo, indiziario e accusatorio, aveva un fine dichiarato. Ottenere piena testimonianza e consegnare al patibolo i perfidi untori per placare l'ira funesta di un popolino assetato di giustizia. La strategia aveva un nome solo. Tortura. E la confessione giunse puntuale, precisa e dettagliata. Peccato che fosse falsa. Iniquità per legge.

Per placare i tormenti il modesto barbiere fece mettere a verbale quello che i suoi aguzzini volevano farsi dire, salvo smentire ogni parola con metodica puntualità non appena i dolori s'interrompevano. A nessuno però sorse il sospetto di un'autocalunnia, perché la priorità era un colpevole da esibire. Finì come in Senato volevano che finisse. A quei due poveretti con la stoffa finta degli assassini furono imposte le tenaglie arroventate e la ruota. Ebbero le ossa spezzate e, dopo un mese di tormenti e soprusi, furono affidati al rogo del patibolo. L'1 agosto di quell'anno la loro vita si concluse in una pubblica gogna che doveva mostrare ai milanesi l'inflessibilità del governo nei confronti degli untori.

Il timore della peste poté più della ragione. Eppure, la verità la disse proprio Mora poche ore dopo l'arresto. L'unguento l'aveva preparato lui con «8 onze d'oglio di oliva, 4 di aglio laurino, 4 d'oglio di sasso detto filosophorum, 4 di cera nova, 4 di rosmarino, 4 di ballette di ginepro, e 4 onze di polvere di salvia». L'aveva consegnato a Piazza perché aveva proprietà di prevenire il morbo. E, a uno che il lavoro aveva condannato a vivere a contatto degli ammalati, poteva servire. Siccome però il barbiere - spesso a contatto degli avventori - viveva in bottega per non rischiare di contagiare moglie e i tre figli, qualche fisiologico residuo l'aveva accumulato in un secchio. Letame uguale topi. Topi uguale peste. La prova era bell'e pronta.

Il Senato non si accontentò. Morto il Mora, la sua casa fu rasa al suolo e sullo slargo sorse un monumento con una sfera di pietra in sommità. Era la colonna infame. Monito perpetuo della sorte inflitta ai malvagi. Una lapide ne ricordava le colpe ma nel 1770 la giustizia cominciò a farsi strada. A Vienna sapevano che si era trattato di un errore giudiziario e la vergogna ne imponeva una rimozione ma il Senato milanese rifiutava. La riluttanza era ad ammettere lo sbaglio. E l'obelisco sopravvisse. A risolvere lo scontro fra autorità pensò una vecchia legge cittadina che, per sculture d'infamia, non ammetteva restauri. E quando le crepe iniziarono a farsi vedere, l'anziano del quartiere ne domandò l'abbattimento per sicurezza. Nell'agosto del 1778 anche la colonna finì in frantumi. Rimase la targa, custode e maestra del nulla per un altro quarto di secolo. Nel 1803 venne rimossa e oggi si trova al Castello nel cortile della Rocchetta. Fu un intervento necessario perché dopo oltre 170 anni la casa di Gian Giacomo Mora sarebbe stata ricostruita e, se una riabilitazione c'è stata, è arrivata solo nel 1868 quando la giunta municipale decise che quella strada fosse intestata al barbiere. Le maledizioni sono dure a morire. E nel '43 i bombardamenti alleati ridussero a un cumulo di macerie quell'edificio che raccontava storie di un commissario delatore e un barbiere giustiziato per colpe mai avute. L'epitaffio corretto viene da una penna celebre, quella di Alessandro Manzoni che nella Storia della colonna infame sposò la tesi dell'errore giudiziario. E oggi all'ingresso del nuovo palazzo di via Mora, un porticato ricorda quel tragico slargo e un bassorilievo la colonna infame.

Accanto, le parole di don Lisander: «È un sollievo pensare che se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell'ignoranza che l'uomo assume e perde a suo piacere e non è una scusa ma una colpa».

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