C'era una volta la Lega che «ce l'aveva duro» e che girava in canottiera. E forse un po' c'è ancora. Ma quella dell'ex ministro Maroni, che d'ora in poi dovremo abituarci a chiamare governatore, ha cambiato pelle e non per le giacche in tweed e gli occhiali rossoneri. Nell'era in cui tutti sono autorizzati a dire tutto e a scrivere tutto sulla rete, pesa ciò che si fa e ciò che si dice. E la campagna elettorale del segretario del Carroccio, che fortunatamente non l'ha suggerita nessun guru americano, dal punto di vista dello stile non ha fatto una grinza. Si fa fatica a rintracciare un Maroni fuori dalle righe o a ricordare un suo attacco troppo personale agli avversari. Certo ha ribattuto e le ha rese perché è così che si fa in una campagna elettorale, soprattutto se si vuole portare a casa la vittoria. Che alla fine è arrivata ma che all'inizio non sembrava per nulla scontata. Anzi. Quando l'ex ministro, pardon il governatore, si è candidato, in molti pensavano che non sarebbe andato fino in fondo: «Dura minga...».
Poi il tiramolla di Albertini, il centrodestra diviso e una sinistra lanciata dalle primarie e dalla faccia perbene di Umberto Ambrosoli avevano alimentato dubbi e incertezze. Ma Maroni non si è scomposto. Conosceva il pezzo che doveva suonare e non ha steccato. Lo spartito era in lumbard ma la melodia l'ha riscritta lui.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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