Hanno distrutto plafoniere, divelto termosifoni, spaccato impianti di videosorveglianza, utilizzando i bastoni delle scope come mazze e le brandine come scudi. Hanno bruciato materassi, mucchi di carta, strappato l'impianto elettrico, cercato di prendere in ostaggio alcuni agenti della polizia penitenziaria. E sono saliti sui tetti del terzo e del quinto piano dopo aver bucato le botole. Chiedendo a gran voce solo e sempre una cosa: l'indulto. Senza alcuna intenzione di mediare non solo di fronte ai magistrati Alberto Nobili e al collega Gaetano Ruta, ma nemmeno alla presenza del presidente del tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa e del provveditore regionale Pietro Buffa. Il coronavirus?
«Qui a San Vittore, come nel resto d'Italia, la sospensione dei colloqui per l'infezione è stata solo un pretesto per cominciare a spaccare ogni cosa, mettere a ferro e fuoco gli ambulatori e saccheggiare il metadone» spiega il personale della polizia penitenziaria del carcere nel centro di Milano dopo essere riuscito a contenere una rivolta selvaggia che altrove avrebbe fatto morti sicuri.
Iniziata poco dopo le 8 del mattino non in un reparto sovraffollato, bensì (e questo è probabilmente il fatto più grave) in quello «modello», a custodia attenuata, la «Nave» - una zona dove le celle sono aperte 12 ore al giorno, creata diciotto anni fa per chi soffre di forme di dipendenza ma ha scelto di seguire la strade del recupero, - la protesta è andata avanti tra alti e bassi fino alle 17.30.
Il tam tam - fomentato da «la Nave» ma poi diffusosi in tutta la casa circondariale - ha coinvolto, nell'arco della giornata, circa 900 detenuti su tutti i piani, praticamente la totalità della popolazione carceraria maschile (le donne sono poco più di un centinaio), per tre quarti extracomunitari. Dopo essere saliti sui tetti, i detenuti hanno bruciato lenzuola, carta, buttandoli giù, in strada. «Ma alcuni di loro sono scesi in fretta perché, per la foga, si sono sentiti male» spiega, tra le lacrime, una delle tante volontarie evacuate dal carcere subito dopo l'inizio delle proteste.
In overdose da metadone tre nordafricani, alla fine della rivolta, sono stati portati in ospedale per essere soccorsi; tutti gli altri, dopo essere stati faticosamente chiusi dietro i cancelli di quelle sezioni di cui in mattinata avevano rubato le chiavi, hanno continuato a gridare incessantemente tutta la notte. Un «contributo» al caos ieri hanno voluto darlo anche una ventina di anarchici. Che per appoggiare la protesta dei detenuti, sono arrivati nel primo pomeriggio davanti a San Vittore e dopo aver bloccato il passaggio di un pullman della penitenziaria, si sono scontrati con i poliziotti in tenuta antisommossa schierati davanti all'ingresso principale del carcere. Gli agenti hanno chiesto loro di spostarsi e al rifiuto è scattata la carica durata però solo pochi secondi.
Nelle celle è stata cavalcato il malumore e la protesta che da tempo dilaga in tutte le carceri italiane. Approfittando dell'incertezza dei tempi del resto del mondo, quello fuori dal carcere, che in poche settimane, a causa di questa nuova «peste», sono cambiati in maniera radicale, diventando timorosi e incerti. La polizia penitenziaria è concorde su questo elemento fondamentale: lo smarrimento e le restrizioni dovute al coronavirus hanno fatto semplicemente da innesco alla protesta di ieri.
«Siamo stati fortunati ma anche bravi, oltre che all'interno, molti di noi hanno stazionato a lungo anche davanti al muro intercinta, ci siamo coordinati in maniera lucida - conclude una guardia penitenziaria stremata ieri sera all'uscita dal carcere -. Non ci sono stati feriti e questo lo dobbiamo anche all'aiuto della polizia e dei carabinieri, ma anche ai rinforzi mandati dal provveditorato».
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