Commento/1 Imprese ingessate, più gioco di squadra

Una volta sì che Milano era veramente grande, sì che si stava bene, adesso invece la città è ai minimi storici. I soliti confronti con il passato devono sempre suggerire prudenza. Le città come i popoli hanno avuto e continueranno ad avere alti e bassi. Non doveva essere salutare passare da Milano nel lontano 1162 quando il Barbarossa (ma soprattutto i suoi alleati italiani, seguendo un intatto istinto masochistico) rasarono al suolo tutto con un’operazione di fino, così come non doveva poi essere il massimo della vita esserci nel 1943 per testimoniare i più pesanti bombardamenti mai subiti da una città nella penisola. Non si puo’ tuttavia negare che qualcosa sembra essersi rotto, che un certo qual filo conduttore sempre presente nell’animo di Milano nel bene e nel male sia momentaneamente perso. La cosa è tanto più preoccupante perché pare che ad aver smarrito parte dello spirito che ha sempre consegnato alla nostra città una posizione d’eccellenza in Europa, siano proprio quelli che ne hanno sempre costituito la forza, vale a dire gli imprenditori. A Milano si fa sempre più fatica a fare. I tempi in cui ci si poteva vantare di aver costruito la prima centrale elettrica d’Europa nell’attuale Via Santa Radegonda stanno ormai scolorando nel mito, ora sembra invece che per tutto ci sia una grande stanchezza, un senso di disillusione che sconfina nell’appagamento e nella tentazione di fermarsi e godere dell’acquisito. I motivi per cui l’imprenditoria milanese sta dando sintomi di ripiegamento sono in parte comprensibili: il freno di tasse e burocrazia e la sensazione che chi prova ad elevarsi diventi più visibile e vulnerabile per fastidi e grattacapi legali, suggeriscono in effetti il basso profilo. Va anche detto che una certa indulgenza per la non spettacolarizzazione, che a volte è purtroppo sfociata nel compromesso al ribasso, è in effetti parte del Dna della città, ma su una cosa il milanese non ha mai mollato: qualità, lavoro e orgoglio del primato. Proprio su questi capisaldi deve giocarsi la possibilità di riscatto. Per nessun milanese deve essere tollerabile l’idea di scivolare nella mediocrità o peggio nell’inazione. I cantieri che stanno a marcire senza fare nulla per anni come la Darsena non dovrebbero trovare cittadinanza nel cerchio delle tangenziali e non ci si può certo accontentare di qualche grattacielo. Non dico sia facile tornare al vecchio commendatore milanese che accarezzava ogni prodotto della sua fabbrica come se fosse un figlio, ma le energie private ci sono, ci sono sempre state, occorre solo che qualcuno raccolga la bandiera. L’idea buona potrebbe venire dal mondo della moda: e’ bastato lo scorso febbraio il lancio del marchio «Made in Milano» per vedere in alcune realizzazioni un respiro più ampio e un’idea di squadra che mancava. Sarebbe forse il caso di insistere, valorizzare ed estendere il simbolo ad ogni attività produttiva o di servizi di qualità milanese. Niente di meglio per svegliare un imprenditore lombardo che il doverci mettere la faccia. Ma il gioco di squadra va bene se tutti marciano nella stessa direzione, istituzioni in prima fila.

Sarebbe l’unica maniera di recuperare il filo perduto: fare in modo di evidenziare chi non fa, scappando da un mondo dove la bacchettata rischia spesso di colpire chi vuole fare e dando in cambio al milanese qualche motivo di orgoglio, magari cominciando da un simbolo.

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