Nel luglio dell'anno scorso era entrata nel reparto maternità della clinica Mangiagalli e aveva preso una neonata dalle braccia della madre. La sua intenzione era di portarla con sé e di tenerla. Ieri la donna di origini ecuadoriane, 33 anni, è stata condannata a tre anni di carcere dalla Quinta sezione penale del Tribunale. Su di lei pesavano le accuse di sequestro di persona aggravato e sottrazione di minore. Il pm aveva chiesto una condanna a quattro anni e mezzo di reclusione.
La donna è ora libera, ma era rimasta in carcere a San Vittore per circa sette mesi. Nel corso del processo ha trovato un accordo con i genitori della bambina e li ha risarciti. In aula aveva spiegato così il proprio gesto: «Ho avuto paura che il mio compagno mi lasciasse. Chiedo perdono alla madre». La 33enne, casalinga a Mediglia e già madre di una bambina di 7 anni avuta da una relazione precedente e partorita proprio alla Mangiagalli, aveva appena perso il bambino concepito con l'attuale partner. Secondo il suo racconto, non aveva detto a nessuno dell'aborto avuto in una fase molto avanzata della gravidanza e sperava di far credere di aver dato alla luce quella bimba che invece aveva rubato. Aveva paura infatti di essere abbandonata a causa della gravidanza fallita, come le era successo in passato dopo un altro aborto spontaneo.
I giudici presieduti da Ambrogio Moccia hanno concesso all'imputata le attenuanti, che hanno compensato le aggravanti. Nella requisitoria il vice procuratore onorario, che ha fatto le veci del pm, ha spiegato che la donna, nel luglio scorso, ha agito con «notevole determinazione». Non è riuscita a far uscire la neonata dall'ospedale solo perché la mamma, una giovane moldava, si è insospettita. Quest'ultima si è sentita dire dalla sconosciuta che la piccola doveva fare alcuni esami, ma nel dubbio ha chiesto conferma a un'ostetrica. La quale ha rincorso e bloccato la rapitrice. Una volta fermata, la 33enne «non ha potuto fare altro che riconsegnare la bambina». Sempre secondo la ricostruzione della Procura, l'ecuadoriana era stata vista nei giorni precedenti aggirarsi nella zona del nido della clinica. A testimoniare le sue intenzioni c'era anche la borsa che portava. Dentro c'erano cappellini rosa, guantini, calze, scarpette, un biberon e persino un braccialetto simile a quelli che si mettono al polso dei neonati nelle nursery.
Alla base di tutto, ha aggiunto la rappresentante dell'accusa, «c'è di certo il dramma umano della donna che aveva perso il bambino e aveva paura di essere lasciata dal marito. Ma questo non può influenzare il discorso giuridico».
Il difensore, l'avvocato Nicola D'Amore, aveva chiesto l'assoluzione affermando che «si tratta di un dramma che ha coinvolto due famiglie, ma in quel momento la mia assistita non era in grado di comprendere la portata delle sue azioni a causa di una crisi dissociativa. Sarebbe stata utile un'indagine psichiatrica durante le investigazioni». Il legale ha aggiunto che il risarcimento è stato offerto esclusivamente allo scopo di «chiedere perdono» ai genitori della piccola.
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