Avrebbe potuto limitare i danni accettando di risarcire il Comune con ottanta ore di lavoro volontario. Invece Ivan Tresoldi, «poeta di strada» per sua stessa definizione, ha scelto di affrontare il processo senza scendere a patti con Palazzo Marino. Era accusato di avere imbrattato un muro in zona Bicocca, era reo confesso, si era anzi autodenunciato di altri reati portando in aula le foto di una ventina di opere analoghe sparse qua e là per la città. E ieri il tribunale lo ha condannato: 500 euro di ammenda, che non dovrà versare perché gli è stata concessa la condizionale; ma anche il risarcimento dei danni a favore del Comune, che - con qualche tentennamento - si è costituito parte civile. E questi soldi il «poeta di strada» dovrà versarli davvero.
Non è la prima volta che il fenomeno dei writer approda in un'aula di tribunale, e numerosi artisti dello spray sono già stati condannati. Ma il caso di Tresoldi è un po' diverso dagli altri, anche perché il giovanotto non si atteggia ad artista: «La mia passione per la poesia nasce dalle mie scarsissime abilità, io sono nato senza particolari talenti e la poesia è accessibile a tutti». Per cui via libera alla produzione di versi e alla loro trascrizione sui muri cittadini: niente di troppo ermetico o profondo, cose tipo «chi getta semi al vento farà fiorire il cielo», «una pagina bianca è una poesia nascosta». Ma se non altro più intellegibili degli scarabocchi dei writers.
Lui, il «poeta di strada» si è sempre difeso sostenendo che le sue vernici si sciolgono alle prime piogge, che comunque lui prima di realizzare una delle sue opere ottiene il consenso degli abitanti della zona. Purtroppo, almeno in questo caso, i cittadini avvisati e consenzienti non erano i proprietari dello stabile decorato, che appartiene invece (siamo di fronte alla biblioteca della Bicocca) al Comune di Milano. Così nei confronti di Tresoldi, colto in flagrante dalle guardie ecologiche, è scattata la denuncia.
Indagato e mandato a processo dal pm Elio Ramondini, Tresoldi era venuto in aula a ribadire che «non sempre c'è bisogno di un'autorizzazione formale per effettuare certi interventi»; e che comunque «io non deturpo lo spazio pubblico, le mie vernici sono ad acqua e le opere si cancellano col tempo». Ieri, in attesa dell'udienza, spiegava che la richiesta di danni da parte del Comune è un'assurdità, visto che lo stesso Comune gli ha affidato incarichi di vario genere. E il suo avvocato, Angela Ferravante, ha sostenuto che «Tresoldi non aveva alcuna volontà di imbrattare ma era convinto che le sue poesie migliorassero i luoghi».
L'argomento non ha fatto breccia nelle convinzioni del giudice Roberto Crepaldi, che lo ha condannato. Unica consolazione, la concessione delle attenuanti generiche, che ha permesso al «poeta» di evitare la condanna a una pena detentiva.
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