"Così farò rinascere il Padiglione d'Arte Contemporanea"

Il nuovo curatore spiega il suo programma: «Niente star ma solo ricerca e artisti italiani»

"Così farò rinascere il Padiglione d'Arte Contemporanea"

Cercasi Pac disperatamente, ovvero il Padiglione d'arte contemporanea costruito in via Palestro agli inizi degli anni '50 da Ignazio Gardella e che nella sua storia ha ospitato grandi personali come Jannis Kounellis, Gina Pane, Duane Hanson, Richard Long, oltre a memorabili collettive come «Rosso vivo». Da alcuni anni è uno spazio caduto in uno stato di semi-oblio, dovuto alla mancanza di una vera direzione artistica e certamente offuscato dall'attività di realtà private come Hangar Bicocca, Fondazione Prada e le numerose gallerie di livello internazionale. Quest'autunno, dopo un periodo di sonno e qualche deriva modaiola, l'assessore alla Cultura Filippo Del Corno ha nominato per la prima volta un curatore alla testa di un nuovo comitato scientifico che si occuperà di restituire una logica al programma espositivo. Il giovane Diego Sileo è pieno di buoni propositi e ci illustra la sua strategia mentre sta per chiudersi la mostra personale dedicata all'artista genovese Luca Vitone.

Una mostra non facile di un artista italiano poco conosciuto. Seguirà questa via?

«Il ruolo del Pac dev'essere quello fare ricerca e qui certamente non vedrete artisti di tendenza. Vitone fa parte di una generazione di mezzo che, proprio nella tradizione del Pac, abbiamo il dovere di recuperare e storicizzare, possibilmente quando sono in vita. Le mostre del Pac degli anni '80, come quelle di Vincenzo Agnetti e Emilio Isgrò, facevano parte di questa strategia».

Per storicizzare gli artisti servono i musei e Milano ancora non ce l'ha.

«Vero, ma con le mostre vanno anche avanti le civiche raccolte, con le acquisizioni di tutti i contemporanei, da Vitone ad Adrian Paci, da Armin Linke a Alberto Garutti».

Il suo è un programma biennale che prevede quattro mostre all'anno. Con quali logiche?

«Faremo tre personali all'anno più una collettiva, con artisti sia italiani sia internazionali. La scelta è verso quegli artisti che con vari linguaggi riescono a leggere i temi scottanti dell'attualità e della contemporaneità. Così come è stato, volendo citare qualche mostra importante tenutasi negli ultimi tempi, per lo spagnolo Santiago Sierra e la latinoamericana Regina José Galindo. Partiremo nel 2018 con la messicana Teresa Mergolles, artista concettuale che affronta temi forti come i tabù della violenza e delle disuguaglianze».

Non pensa che il pubblico sia un po' stufo di minimalismo, documentari e reportage?

«Il tema sociale nell'arte è un fil rouge che ci interessa portare avanti anche attraverso cicli di conferenze. Ma esploreremo altri ambiti. A marzo presenteremo una mostra sulla Body Art con un congresso di Lea Vergine, a fine anno una personale di un'artista italiana fortemente poetica come Eva Marisaldi; a febbraio un'ampia antologica dedicata al designer-artista Enzo Mari. Nel 2019, invece, avrò l'onore di presentare al pubblico una brava artista calabrese che ha sempre vissuto all'estero ma che in Italia non ha mai fatto mostre, pur avendo avuto una personale al Moca di Los Angeles: Anna Maria Maiolino».

Nel suo programma figurano collettive dedicate a Paesi esotici. Dopo gli artisti cubani, quelli brasiliani e poi i giapponesi.

Nell'era globale hanno ancora senso i «padiglioni nazionali»?

«Tutti pensano di conoscere quello succede lontano dall'Italia ma, visitando gli studi degli artisti nel mondo, ci sono ancora tante scoperte da fare».

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