Cronaca locale

«Così Umberto ha sferrato il suo rovescio al cancro»

Il ricordo della tennista testimonial delle campagne. Dopo sei mesi dall'intervento vinse il titolo mondiale

Il 1973 fu un anno cruciale per la tennista Lea Pericoli. Giovane e biondissima, era alle prese con gli allenamenti per i campionati del mondo, quando Umberto Veronesi, allora primario all'Istituto nazionale dei tumori in via Venezian, le diagnosticò un cancro. I due si conobbero nel peggiore dei modi. Ma ne nacque una splendida amicizia. Non solo, dopo sei mesi dall'intervento per asportare il tumore, Lea Pericoli si riprese pure il titolo mondiale. Una vittoria su tutti i fronti, che le cambiò la vita.

Lea Pericoli, forse il «rovescio» più importante della sua vita lo diede grazie a Veronesi.

«Direi proprio di sì. Gli devo molto. Ed era lui per primo a prendere «di rovescio» le cose, a cominciare dal suo lavoro».

In effetti diceva sempre ai medici che bisogna essere trasgressivi.

«Negli anni Settanta quando c'era una diagnosi di tumore, il paziente non veniva nemmeno a saperlo. Il medico lo comunicava solo ai suoi parenti. Era una specie di condanna a morte. Umberto invece ha aperto una nuova era».

Cioè dava la diagnosi direttamente al paziente?

«Sì, ed usava apertamente la parola tumore, che fino a quel momento era un tabù assoluto, quasi fosse una vergogna essersi ammalati di cancro. Quando mi disse cosa avevo, mi spaventai tantissimo. Ma non mi mollò, mai».

Come scoprì di essere malata?

«Quasi per caso. In realtà io stavo bene, avevo solo fatto una visita di controllo. Fui fortunata perché il tumore mi fu diagnosticato quando era nella fase iniziale. E lì ho capito il valore della diagnosi precoce».

E sei mesi dopo l'intervento lei divenne nuovamente campionessa del mondo.

«Dopo quel titolo Veronesi mi chiamò subito e mi volle come testimonial per la campagna conto il cancro della Lilt, di cui allora era presidente. Mi disse che lo sport era l'immagine della buona salute».

Quando lei salì sul podio Veronesi dichiarò che quella era anche la vittoria della scienza.

«Era entusiasta. E mi arruolò - letteralmente - nella sua battaglia anti cancro. Sono tuttora in missione, come un suo soldato, e continuo nella raccolta fondi. Ho anche fondato una mia associazione, Tennis per la vita, per aiutare i malati di cancro».

In fila alla camera ardente ci sono soprattutto le sue pazienti. Lei ne avrà conosciute tante.

«Quando iniziai la mia avventura da testimonial dissi che mi sarei impegnata a fondo anche per aiutare una sola donna a combattere il tabù del cancro. Ho conosciuto tante donne che devono la vita a Umberto e con loro si crea sempre un legame delicato e molto intimo. Per me aver avuto l'opportunità di essere un esempio è stata un'esperienza unica».

Non lo vedeva da tanto?

«Da tanto. Ma anche se non lo sentivo per un po' di tempo, mi telefonava di punto in bianco e mi affidava qualche missione. Io scattavo e correvo. Per la Lilt o per l'Airc».

È andata a dargli un ultimo saluto?

«No, preferisco non andare alla camera ardente. Nella mia mente ho l'immagine di un Umberto giovane, bellissimo come il sole e con un fascino infinito.

Lo voglio ricordare così: vincente».

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