Le cosche in città a caccia di affari

Le cosche in città a caccia di affari

«Se martedì non mi portano tutti i soldi è meglio che scappano tutti da Milano! Ti giuro che ve la faccio pagare molto cara, molto cara, sia chiaro! Metto pure i bambini metto! Non mi interessa un cazzo, non ci ho rispetto per nessuno più». Fotografie dall'interno di una cosca mafiosa del terzo millennio: mafia mutata, per alcuni aspetti indebolita, ma ancora capace di incutere terrore. E va bene che Cinzia Mangano, figlio del vecchio Vittorio, il boss morto ormai tredici anni fa, cerca di darsi un tono, di evitare le maggiori brutalità, dicendo in una intercettazione che «noi non abbiamo bisogno di presentazioni». Ma poi per fare valere a Milano le loro ragioni, gli uomini di Cosa Nostra non hanno altro metodo che quello della violenza, di «fare vedere i denti come i vampiri».
Finiscono in galera in otto, all'alba di ieri mattina. Il nome che richiama in frotte i cronisti nella stanza di Alessandro Giuliano, capo della Squadra Mobile di Milano, è quello di Cinzia Mangano: perché suo padre non era un boss qualunque, era «lo stalliere di Arcore», l'uomo-simbolo delle inchieste sui rapporti tra Berlusconi e Cosa Nostra. Ma più di Cinzia nelle 558 pagine dell'ordinanza di custodia spicca e quasi giganteggia un altro personaggio. È lui, Giuseppe Porto, palermitano, «Pino il Cinese» per compari e complici (che però lo sfottono perché si è comprato una Ferrari ed è troppo grasso per entrarci) l'uomo che ringhia le minacce alle sue vittime e ai loro bambini. Anche lui era legato al vecchio Mangano, prima ancora che alle figlie: fu tra i pochi eletti che portarono a spalle la bara del padrino, il giorno del funerale a Palermo. D'altronde Porto nasce bene, suo padrino è Gioacchino Matranga, uno dei protagonisti dello sbarco delle famiglie palermitane al nord. E come sia possibile che uno come Pino Porto abbia attraversato pressoché incolume quarant'anni di inchieste antimafia è un piccolo mistero.
Ma l'inchiesta che adesso, a sessant'anni compiuti, spedisce il Cinese in galera insieme a Cinzia Mangano e a un manipolo di complici aiuta a rispondere a una domanda importante: cosa fa, oggi, la mafia a Milano? Quali sono i suoi core business? Risposta: un po' di tutto, si arrangia, estorce, ricicla. E si lancia nei nuovi mercati, quelli aperti dalla immigrazione selvaggia, la manodopera in nero, i facchini sottopagati. Cooperative che lavorano per i marchi più importanti della grande distribuzione fornendo braccia a poco prezzo. Come la camorra nei campi di pomodoro campani, così la mafia in Lombardia. Là ci sono i caporali che reclutano gli africani, qua le srl con sigle astruse e sede negli uffici del centro che vendono al migliore offerente il sudore di sudamericani, filippini, cinesi. Una macchina da soldi, appesantita dagli obblighi di solidarietà verso la vecchia guardia finita dietro le sbarre, a cui bisogna garantire il welfare delle cosche: pagare gli avvocati, trovare i medici compiacenti, mantenere i parenti. "Ho più i ottocentomila euro fuori", brontola il Cinese dopo che la signora Matranga è andata per l'ennesima volta a bussare a quattrini.
Poi, accanto alle cooperative di facchini e pulitori, c'è il vecchio universo dei soldi fatti girare, e delle aziende inghiottite.

Ma l'inchiesta della Mobile di Milano sembra confermare un vecchio e quasi confortante adagio: che qui, al nord, a finire nelle grinfie dei mafiosi sono solo imprenditori che i guai se li sono andati a cercare, facendosi finanziare da loro, o usandoli per sbrigative pratiche di recupero crediti. Senza immaginare che poi rischiassero di andarci di mezzo i bambini.

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