La cucina è palato assoluto: il gusto che sposa la scienza

Vita di un innovatore: scuola in Svizzera, poi a Parigi e tanta nostalgia della Milano dei navigli e degli artisti

La cucina è palato assoluto: il gusto che sposa la scienza

Gualtiero Marchesi, uno dei padri nobili della cucina mondiale. A Milano e in Italia ha rappresentato l'innovazione, percorso nuove strade e fondato tendenze. Dalle sue brigate sono usciti molti chef protagonisti della cucina contemporanea.

Gualtiero Marchesi, cominciamo da Milano.

«Ho un'età veneranda, ottantasette anni e ho molto amato una Milano che sento mia, quella degli amici artisti e del loro mondo affascinante, con angoli intimi e nascosti, una città che giustamente Sthendal definì la più bella del mondo. I Navigli che attraversavo da ragazzino per andare alla scuola Feltrinelli e sui quali, un po' più grande, ho visto l'alba sorgere tante volte. Oggi Milano sta andando forte, crescendo con volontà e carattere».

Quando nasce il suo rapporto con il cibo?

«All'albergo Mercato dei miei genitori, anche se non era la mia passione. Io amavo l'arte e la musica. Fu mia madre, attraverso suoi clienti di Locarno, a mandarmi a fare pratica al grande albergo Kulm di Saint Moritz. Tutto partì da lì, oggi si direbbe stage, poi l'alberghiero in lingua tedesca a Lucerna e il ritorno a Milano».

La musica è rimasta?

«Imparai a suonare il piano per amore di una pianista che sposai. Oggi i miei figli sono una banda di musicisti: due pianiste, un violoncellista, un flautista e un violinista. Bartolomeo ha vinto un concorso, Guglielmo suona in Germania dove andrà anche Lucrezia».

Nessuno ha seguito la strada della cucina.

«Bene così. E poi la cucina è come la musica, anzi di più perché c'è la scienza. Ermanno Olmi parlava dell'orecchio assoluto, io sono convinto che esista il palato assoluto: gusto e scienza insieme. Dal Giappone, dove ho lavorato all'Hotel Otani di Tokyo, ho tratto il grande messaggio: una cosa bella e buona deve essere valorizzata nella sua essenzialità».

Ad esempio?

«Giorni fa ero da uno chef che lavorava con me. Nella cucina a vista, scorgo tre bellissime patate bollite, ne ho presa una e con un goccio d'olio era perfetta. L'occhio ha capito la qualità, il resto lo fai con l'esperienza e l'intelligenza. La sintesi è di Pablo Picasso: «Io non cerco, io trovo». Se siamo curiosi, c'è un intero mondo fantastico che ci circonda e che ognuno può recepire».

Che cosa ama in cucina Gualtiero Marchesi e che cosa detesta?

«Cerco di trasmettere il valore della materia e la manualità: Non è importante come tocchi il tasto, io ho già fatto tutto nella composizione diceva Bach, Giovanni Sebastiano in italiano».

Il sapore dell'infanzia?

«Ricordo il minestrone che mangiavo sulla porta di casa a San Zenone Po, paese di mio padre e di Gianni Brera, il più allagato d'Italia per la confluenza tra l'Olona e il grande fiume. Rivedo mio padre in barca e il sapore di quel minestrone».

Il profumo della cucina?

«Quello del prosciutto affettato a coltello negli anni in cui avevo la tavola calda e fredda, frequentata dai commercianti della zona. Negli anni da chef, il piacere dei profumi del mercato dove andavo molto volentieri».

All'alba, giusto?

«Dal 1977 agli anni Novanta ero in Bonvesin de la Riva e andavo al mercato alle cinque del mattino. Il momento migliore: vedi i prodotti e ti innamori dei gamberi vivi, degli scampi».

Scelti di persona è diverso.

«Ma come si fa a non andare al mercato e parlare con i fornitori? La mia Terrina di fegatini di pollo è nata perché il mio fornitore abituale mi disse ho quindici chili di fegatini, erano belli e li presi. Ma che farne? Li pulii, aggiunsi burro, sono troppo poco grassi e ci lavorai. Due clienti francesi commentarono meglio del foie gras, un bel complimento».

Meritato.

«Il complimento più bello lo fece un napoletano quando ero in Franciacorta. Mi chiamò e disse Questa sera ha resuscitato le mie papille gustative dormienti. Che fantasia, adoro i napoletani».

Quando non cucina che cosa cerca a tavola?

«Mi aspetto di mangiare cose semplici per capire la materia. Perché doversi complicare la vita? Scelgo l'essenzialità. Materia prima di alta qualità che va valorizzata e non distrutta. Anche il colore è importante, quando si compra un'auto si guarda il motore? No, il colore e la linea. Io lo faccio in cucina».

Cosa non smetterebbe mai di mangiare?

«Insalata di spaghetti al caviale ed erba cipollina». Spaghetto freddo, erba cipollina, un goccio d'olio e una cucchiaiata di caviale. Superlativo».

Il pranzo o la cena che non dimenticherà mai?

«Ero a Roma all'Hostaria dell'Orso e trovai per Mario Monicelli la Liqueur de Patriarche che amava molto, mi scrisse una bellissima dedica: Dopo la Bibbia, la Liqueur de Patriarche».

Cucina e arte di pari passo.

«Diceva il grande pittore Touluse-Lautrec che in ogni arte, e ciò vale anche per la cucina, la grande raffinatezza consiste nella sintesi e nella semplicità. Evidentemente è necessario rifarsi alla tradizione, ma bisogna dimenticarla senza tuttavia tradirla. La cucina, come l'arte, non è destinata agli incivili, ai rozzi e ai filistei. Così si diventa cuochi senza pregiudizi, anarchici che rispettano solo la legge dell'equilibrio».

Il vino cosa stimola in lei?

«Nel 1961 introdussi per primo in Italia la carta dei vini con 240 etichette Italiane, francesi, tedesche e ungheresi. Un precursore. Negli Stati Uniti preparai un menù degustazione facendo servire il vino solo quando gli ospiti avevano terminato il piatto. Non volevo che mischiassero le esperienze».

Menù tradizionale o innovativo?

«Abbiamo una straordinaria cucina del territorio. Diceva Paul Bocuse che la cucina francese tramonterà quando gli italiani si accorgeranno del patrimonio che hanno».

La cena romantica è un'arma vincente?

«Alla mia età ci provo».

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