Non un intero alfabeto, ma un pugno di lettere per raccontare un sant'Ambrogio in tempi di crisi. Questa sì, in verità, la parola che più si è sentita ripetere tra il foyer della Scala e le bancarelle degli Oh bej. Il mantra che il governo dei tecnici ha inventato per convincerci che pagare le tasse è bello. Senza essere però riusciti, come avevano promesso, a farle pagare a tutti.
Assenti . Alla fine sono quelli che hanno fatto più parlare di sé. Dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano finito nel pasticcio dell'inno (che prima non c'è, poi compare), alle due soprano influenzate colpite dalla maledizione di Ortrude, la strega pagana. Non c'è la bellissima e annunciata Sheikha Mozah del Quatar, né Roberto Formigoni che ha bigiato la sua ultima prima. Ma la verità è che non c'era davvero nessuno. Non un capo di Stato, né un primo ministro. Con buona pace del sindaco Giuliano Pisapia che parla della «vocazione internazionale» di Milano. Diventata, invece, terribilmente spenta e provinciale.
Bella ciao. Il 7 dicembre tra c'è un dopo Scala e un prima della Scala: la cerimonia degli Ambrogini, quest'anno trasformata in una gazzarra da Festa dell'Unità dal vento arancione. Perché un'onorificenza va alla Banda degli ottoni che tra applausi e pugni chiusi dei consiglieri di Sel e sinistra radicale intonano Bella ciao. Quelli del Pd hanno meno coraggio ma approvano, anche se la medaglietta è andata agli occupanti abusivi della Cascina Torchiera. Come a dice che nel meraviglioso mondo di Pisapie, chi commette reato viene poi anche premiato. Per Giulio Gallera (Pdl) «una pagliacciata».
Carabinieri. Loro sì, invece, che finiscono in castigo. Cattivoni. Perché un giusto taglio degli inviti, diventa demagogico populismo quando dalla Prima vengono esclusi assessori, il questore, il comandante dell'Arma e quelli della Guardia di finanza e della Polizia municipale che sarebbero costretti a pagare di tasca propria i 2.400 euro. A meno che, come è successo per il generale Antonio Girone, a pensarci non sia qualcun altro. Per fortuna che a Milano non c'è solo Pisapia.
Divino Jonas. Dame e damazze sdilinquite quando sul palco canta il tenore Jonas Kaufmann, quarantatreenne bravo e fascinosissimo. Con buona pace dei mariti a cui la serata per la mogliettina è costata tra poltrona e vestito dai 10mila euro in su. Grande la soprano Annette Dasch arrivata solo giovedì notte per sostituire le colleghe malate e che oltre ad aver cantato bene, negli intervalli ha allattato la figlia di dieci mesi (Fanny) E ieri sera ha cantato a Berlino. Superwoman.
Feste. Fin troppo esclusiva quella della coppia più glamour della serata: tavolo da quattro per Lapo Elkann e Goga Ashkenazi che ospitano da Cracco le due Marte, Marzotto e Brivio Sforza alla fine un po' annoiate dal tubare della coppietta. Vippume, invece, al Baretto con Gabriella Magnoni Dompé (Bottega Veneta con neoprene al posto della pelle), Marinella Di Capua, Adriano Teso con la Moglie Adriana Morino, Daniela Javarone accompagnata da Mario Furlan, Lorenzo Riva con Nicla Grizzetti, Renato Balestra. E Valeria Marini con Pablo Ardizzone, il visagista (fra le altre) di Simona Ventura. Molto più ingessata la seratona alla Società del Giardino con il premier Mario Monti, Pisapia, il maestro Daniel Barenboim e il sovrintendente Stéphane Lissner.
Ortaggi. Finocchi, ma anche banane e arance lanciati da una protesta dei i centri sociali che son bastati due fiocchi di neve per spegnere. Solito appuntamento, nel solito posto. Ma i tempi di Mario Capanna sono passati e i rivoluzionari ora parlano la lingua degli yankees. E sullo striscione adesso scrivono «Fuck austerity».
Lohengrin. L'eroe fragile wagneriano è stato più fragile che eroe. Steso sul lettino dello psicanalista e schiacciato dalle polemiche per aver scalzato Verdi dalla serata che avrebbe dovuto celebrarne il bicentenario della nascita (peraltro condiviso con Wagner) nel più verdiano dei teatri, si è rivelata scelta troppo intellettuale e poco di cuore. Tanto che gli applausi son mosci e la regia di Claus Guth si è beccata i prevedibili fischi. Come sempre troppo rischiosa la scelta di far slittare le cronologie e azzardato trasferire la trama dall'Alto Medioevo alla metà dell'Ottocento. Gelido il condominio di ringhiera a far da sfondo, angosciante la bara che passa sulla scena.
Scala. Incassato il minimo storico delle personalità istituzionali (soprattutto straniere), il sovrintendente Lissner gongola presentando i conti: 2 milioni e 350 mila euro in cassaforte. Ma soprattutto «110mila euro in più dell'anno scorso. Lo spettacolo è costato molto meno e ha avuto più successo». A leggere i giornali, non tutti i critici la pensano così. Ma quello diceva che l'ottimismo è il sale della vita.
Traviata. La buona notizia per melomani e presenzialisti è che l'anno prossimo si torna a Verdi. In scena un'opera che in molti potranno canticchiare senza dover ammattire seguendo testi tradotti sul display delle poltroncine.
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