Dagli Inca a Christo Il tessuto diventa una forma d'arte

«Essere è tessere» raccoglie 80 opere antiche e contemporanee della Collezione Canclini

Simone FinottiI greci avevano le Moire, i latini le Parche. Nelle saghe nordiche erano le Norne a manovrare il telaio della nostra esistenza e troncare il filo a tempo debito. Cambiano i nomi, non la sostanza: la metafora della vita come un gomitolo da svolgere, tramare e recidere a discrezione del Fato - quello con la «effe» maiuscola, più potente degli stessi dei - è antica quanto il nostro pensiero. Monsieur Descartes avrebbe potuto dire «tesso dunque sono», ma alla Fondazione Stelline hanno preferito coniugarla all'infinito, citando un progetto ambientale di Maria Lai per il paese di Aggius: «Essere è tessere. 100 fili d'artista dalla Collezione Canclini» è l'evocativo titolo di una splendida mostra, aperta fino al 14 febbraio, che dà modo al grande pubblico di penetrare nei segreti della Collezione Canclini, un tesoro costruito in 90 anni di storia familiare e aziendale con opere di grandi maestri che hanno scelto di eleggere il tessuto a forma d'arte. L'esposizione, curata da Chiara Gatti, presenta 80 opere estremamente eterogenee, equamente ripartite fra 40 esemplari dei secoli passati, tribali o esotici, legati a civiltà diverse (dall'America precolombiana al Vicino Oriente, dal Continente Nero all'Asia), e 40 lavori contemporanei, firmati da artisti come Alighiero Boetti, César, Christo, Christian Boltansky, Maria Lai, Jannis Kounellis, Jorge Eielson, Hermann Nitsch, Lucy+Jorge Orta, Yayoi Kusama. Lo scopo è quello di indagare variazioni e permanenze nell'immaginario di uomini così distanti fra loro per epoca e geografia, ma capaci di seguire, sottotraccia, un filo rosso che ne lega i linguaggi espressivi. In quale altro modo si potrebbe spiegare, ad esempio, la continuità fra i reticoli di Piero Dorazio, degli anni Sessanta e Settanta, e i famosi «molas», quadri di tessuto ricamati dalle donne indios Kuna di Panama? Oppure fra i fagotti di Kimsooja, l'artista di origine coreana noto per le sue ricerche sul tema delle migrazioni, e i bauli sette-ottocenteschi in lana e cotone Shahsavand usati dai pastori nomadi dell'Azerbaijan? O ancora fra le tele di juta di Griffa e gli Ikat dell'Uzbekistan? Le geometrie, le figure labirintiche, i colori, le sequenze, i ricami, i nodi tornano nelle tessiture primitive come nelle riflessioni estetiche del secolo scorso, e il passato si fonde con il contemporaneo. Come nelle «parole cucite» per Boetti dalle ricamatrici afgane della sua factory mediorientale, che richiamano le sfumature dei tradizionali copricapi del Turkestan. E nelle imprevedibili declinazioni del jeans, che diventa addirittura materiale per un kimono.

Mentre le opere del peruviano Jorge Eduardo Eielson ci riportano a quando, presso gli Inca, il nodo era usato per scrivere, contare e misurare il tempo. E c'è una chicca: fra rari documenti, campionari d'epoca e strumenti di lavoro spunta il prototipo del primo telaio ideato da Leonardo da Vinci.

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