Delitto Lidia Macchi Dopo trent'anni via al primo processo

Alla sbarra Stefano Binda, unico sospettato e amico della vittima. Sfilano i testimoni

Cristina Bassi

A trent'anni esatti dall'omicidio, il delitto Macchi arriva in un aula di Tribunale. Oggi davanti alla Corte d'assise di Varese parte il processo per l'uccisione di Lidia, la studentessa di vent'anni stuprata e massacrata con 29 coltellate a Cittiglio, non lontano da Varese, tra il 5 e il 6 gennaio 1987. Sul banco degli imputati ci sarà Stefano Binda, 49enne di Brebbia, ex compagno di liceo della vittima e come lei militante di Cl. Binda, arrestato nel gennaio 2016, sarà in aula con i legali Sergio Martelli e Patrizia Esposito. È accusato di omicidio pluriaggravato ed è detenuto a Busto Arsizio.

Le indagini sul cold case erano state riaperte dopo che il sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda aveva avocato il fascicolo. Oggi a sostenere l'accusa ci sarà Gemma Gualdi, subentrata a Manfredda dopo il pensionamento. In aula ci sarà anche Paola Bettoni, la madre di Lidia che con i figli si è costituita parte civile assistita dall'avvocato Daniele Pizzi e che per tre decenni ha preteso la verità sulla morte della figlia. La prima udienza sarà dedicata a questioni preliminari. Verranno presentate le liste dei testimoni e delle prove. Nella prima compaiono oltre 300 nomi, tra religiosi, magistrati, parenti e amici della vittima e dell'imputato, ex membri di Comunione e liberazione a Varese, consulenti, investigatori. Testimonieranno Paola Bettoni, Patrizia Bianchi, che frequentava Binda e che ha riconosciuto la sua grafia nella poesia In morte di un'amica recapitata alla famiglia il giorno del funerale. La Procura generale considera il testo una vera e propria confessione. Poi Paola Bonari, l'amica di Lidia che la giovane andò a trovare all'ospedale di Cittiglio la sera del delitto. Don Giuseppe Sotgiu, allora migliore amico di Binda che ha già testimoniato in un incidente probatorio e che il pg ha accusato di falsa testimonianza. Organizzatori e partecipanti alla vacanza dei ragazzi di Gioventù studentesca a Pragelato nel gennaio 1987: è l'alibi di Binda. Ottavio D'Agostino, giudice in pensione che autorizzò la distruzione di reperti scientifici fondamentali per l'inchiesta, come i vetrini con lo sperma dell'assassino prelevato dal corpo della vittima. Don Antonio Costabile, allora guida del gruppo scout di Lidia e ingiustamente sospettato dell'omicidio. L'ex sindaco di Varese Attilio Fontana, ex pretore di Gavirate.

Come succede per molti casi irrisolti, anche questa partita si gioca sul terreno della scienza. Dopo la distruzione dei reperti prelevati durante l'autopsia nel 1987 l'unica strada è stata la riesumazione dei resti della giovane, disposta nel marzo dello scorso anno. Nella speranza di trovare, a distanza di trent'anni, materiale utile alle indagini. Le analisi sono affidate a Cristina Cattaneo, anatomopatologa dell'Istituto di medicina legale dell'Università statale, e al Ris di Parma. Dentro la bara sono stati trovati diversi peli e capelli, da confrontare morfologicamente con quelli prelevati a Binda. Se verrà trovata una prima corrispondenza, e se il reperto ha conservato il bulbo, verrà estratto il Dna nucleare per il match decisivo. In mancanza di bulbo, entrerà in campo Elena Pilli, del Dipartimento di biologia evoluzionistica dell'Università di Firenze, che proverà a estrarre il Dna mitocondriale (quello che identifica la linea di ascendenza materna). Sono in corso anche gli accertamenti su un reperto salvato dalla distruzione e conservato sotto paraffina all'Istituto di medicina legale di Pisa. Si tratta di un frammento di imene prelevato sempre con l'autopsia.

L'auspicio è che le nuove tecniche permettano di trovare un residuo di spermatozoi del killer, che violentò prima di uccidere. Infine sono sotto il microscopio, dopo essere state repertate di recente, le unghie di Lidia.

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