Ieri, nello stesso giorno in cui Salvatore Ligresti e tutta la sua famiglia vengono arrestati, sui giornali compare un malinconico annuncio del tribunale fallimentare di Milano: «sollecitazione offerte d'acquisto di immobile in corso di costruzione». Perfetta scelta di tempo. Perché quello scheletro di palazzo lasciato a metà in via de Castillia è stato il canto del cigno dell'Ingegnere di Paternò, il tentativo incompiuto di lasciare un'ultima impronta nella skyline milanese. Ma anche se il palazzotto dell'Isola non venisse mai finito, il contributo di don Salvatore nel disegnare Milano come la conosciamo oggi rimarrà visibile a lungo: nel panorama urbano, ma anche in quello dei rapporti d'affari e nei costumi della politica.
É stato un contributo, va detto, che si è conquistato più detrattori che estimatori. Nella Milano del boom edilizio, la facilità con cui Ligresti conquistava terreni agricoli che subito dopo diventavano edificabili era certo dettata dal fiuto imprenditoriale, che andava a sposarsi con la fame di case cui la politica doveva dare risposta. Ma che ci fosse dietro anche una rude conoscenza del mondo assessorile e delle sue debolezze era convinzione diffusa. Basilio Rizzo e Riccardo De Corato, che allora combattevano insieme il pragmatismo socialcomunista che governava Milano, gli fecero guerra a lungo: ma alla fine i sospetti più corposi si concentrarono su una variante, quella per l'hotel Francia Europa, che nell'economia generale degli affari di Ligresti aveva un'incidenza millesimale. Il vero, grande affare delle aree agricole rimase in larga parte inesplorato. Quando gli accordi sottobanco tra Ligresti e l'assessore all'Urbanistica Mottini saltarono fuori, la giunta dovette dimettersi. Ma non accadde altro.
In quel decennio, il 70 per cento delle cubature autorizzate dal Comune di Milano andarono alle società di Ligresti. Una percentuale pazzesca. Qualcuno parlava malignamente di «giunta Ligresti». Non era l'unico, Ligresti, a vedersi miracolare le aree. Costruivano i Cabassi, costruiva Radice Fossati: ma erano rivali che, oltre agli indubbi vantaggi di un accento più nordico, avevano dalla loro parte una minore voracità. Non è nato ricco, Ligresti. E come spesso accade a quelli come lui, l'idea che arrivati a un certo punto ci si possa fermare e accontentarsi non lo ha mai sfiorato. Il mattone, a un certo punto, non gli è più bastato. Mediobanca, Corriere della sera, assicurazioni, sanità. Il primo arresto, in piena tempesta di Mani Pulite, fu per le tangenti sulla metropolitana di Milano. Forse pensava di confessare e uscire, come si usava allora. Restò in ceppi sei mesi. Nei salotti buoni Ligresti si è sempre mosso come si muoveva alla «prima» della Scala: con la convinzione che fosse giusto e necessario esserci, ma con una certa aura di estraneità. La sua stella è calata un po' per volta, complici gli ottant'anni, e una discendenza probabilmente non alla sua altezza.
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