Cronaca locale

Per drughi e Beethoven un'«Arancia» da gustare

Antonio Bozzo

«Drugo, facciamo lubbilubbing con quella devotchka, lascia perdere la babboochka. Ma attento al millicente, nascondi il britva. Poi ci beviamo il moloko, per bog!». È un'esortazione tra «drughi» (amici) nel linguaggio che lo scrittore inglese Anthony Burgess inventò per il romanzo Arancia meccanica. Con questa lingua - la frase sopra è l'incitazione a stuprare una ragazza, lasciando perdere la donna più vecchia, ma stando attenti ai poliziotti, per poi bersi una tazza di latte drogato sotto gli occhi di Dio - e queste parole di oscura malvagità, il regista Gabriele Russo innerva il testo dello spettacolo al Carcano fino al 24. Con accompagnamento musicale ossessivo di Morgan, che reinventa Beethoven in chiave rock-pop, in scena Daniele Russo (fratello del regista, nei panni del protagonista Alex) e sei attori, bravi a trasformarsi in automi «en ralenti» sulle scene di Roberto Crea.

Questa Arancia meccanica, prodotta dal Teatro Bellini di Napoli, prende le distanze dal film di Kubrick. Russo ha fatto un buon lavoro: se proprio si vuol pescare nella memoria cinematografica, più che Kubrick vengono in mente il Fritz Lang di Metropolis o gli incubi dark di Tim Burton e le spiazzanti associazioni visive di Wes Anderson. Resta intatto il significato profondo del testo di Burgess.

Daniele Russo è un più che convincente Alex, il malvagio omicida e leader dei drughi preso, condannato e stabilizzato, con il metodo Ludwig, fino ad annullarne la volontà. Criminale sadicamente addomesticato in una società dove il libero arbitrio è solo un rumore di fondo di civiltà precedenti. L'apologo di Burgess fa riflettere sulla società. Oggi, tra social network e realtà virtuali, non sappiamo bene quali siano i confini della libertà di giudizio e comportamento. La fine di Alex è un monito che indica pericoli. Se il futuro ci riserva un pianeta di «arance a orologeria», esseri svuotati di senso e meccanici nelle azioni, non possiamo anticiparlo. Alla distopia dispotica di Burgess, preferiamo le utopie consolatorie. Ma è bene che lo spettacolo lanci l'allarme.

Da vedere.

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