Cronaca locale

"Due volte hanno provato ad uccidermi: ma non so perché"

"Nel primo agguato fu ferito all'addome, poi alla testa: 200 kg di droga spariti? Non so, ero ai servizi sociali". La storia di Enzino Anghinelli

"Due volte hanno provato ad uccidermi: ma non so perché"

La prima volta che gli spararono addosso Enzo Anghinelli se la ricorda bene: «Ero per strada in via Carlo Forlanini, ebbi la sensazione di qualcuno dietro di me. Mi girai e uno che non avevo mai visto mi sparò addosso quattro colpi. Una delle pallottole è ancora qui, vicino al cuore». Della seconda volta, invece, non si ricorda nulla. É l'agguato che lo ha reso quasi famoso: perchè avvenne in pieno giorno, il 12 aprile 2019, in via Cadore, tra le mamme con i passeggini. Era fermo al semaforo, si avvicinarono al finestrino e gli spararono in testa. «I miei ricordi si fermano a un quarto d'ora prima, quando salii in auto per andare a casa di mio figlio. So solo che per via Cadore non ci passavo mai, forse ho deviato perchè c'era il camion dell'Amsa. E mi sono svegliato dal coma in ospedale». Gli avevano tirato via un pezzo di cranio e di cervello. «Il proiettile mi è entrato dallo zigomo e mi è uscito dietro l'orecchio». Non capita a tutti di sopravvivere per due volte a un'esecuzione.

Ma a rendere straordinaria la storia di «Enzino di Indipendenza» («mi chiamavano così perchè abitavo sul corso, e da ragazzo ero smilzo») c'è dell'altro. Il fatto, per esempio, che gli autori dell'agguato più cinematografico eseguito in questi anni a Milano siano ancora senza nome: a tre anni dal fattaccio, l'inchiesta è ancora a carico di ignoti. E straordinario è anche il contesto, il milieu in cui un'informativa della Squadra Mobile alla Procura ipotizza il movente del secondo attentato ad Anghinelli: la storia di duecento chili di hashish spariti nel nulla nel 2016, tre anni prima dell'agguato. Duecento chili che nel rapporto della polizia portano verso un nome importante: Carlo Zacco, figlio di Antonino Zacco, l'uomo d'onore palermitano che fu negli anni Novanta uno dei protagonisti del processo «Duomo Connection». Detto in sintesi, il rapporto dice che magari il carico sparito era di Zacco; e che magari a farlo sparire era stato proprio Anghinelli. Morale della favola: e se a mandare il commando a spedire al Creatore «Enzino» fosse stato proprio Zacco?

Il problema è che lui, l'immortale Anghinelli, di quel carico di hashish dice di non sapere nulla. O meglio: sa la leggenda che circola nel giro, e cioè che un bel giorno l'auto su cui viaggiavano i duecento chili è stata affiancata da altre due auto, e dei tizi che si fingevano poliziotti si sono portati via tutto. «Ma io ero da tutt'altra parte, in affidamento ai servizi sociali, a fare il volontario in una comunità per disabili». E l'hashish chi se l'è preso? «Non lo so. Ma ho sentito dire che in realtà faceva così schifo da non essere commerciabile. Magari se lo sono rubato da soli». Non era di Zacco? «Lo escludo». E esclude anche che Zacco abbia mandato i due che le hanno sparato? «Al cento per cento».

Non è un santo, Anghinelli. É cresciuto e vive ancora dietro corso Indipendenza, zona di Milano bene: anche se dietro le sue quinte si muovono uomini pesanti. «Mi arrestarono la prima volta per un traffico di droga di cui ero innocente. Venni assolto dopo tre anni di carcere a Trani. Ma ormai ero in un brutto giro. Ho sbagliato e ho pagato i miei conti con la giustizia. Ma non ho mai torto un capello a nessuno e non ho mai fatto il bullo in vita mia». La sua strada incrocia qualche brutto nome anche a San Siro, nel mondo degli ultrà del Milan. «Fondammo gli Sconvolts nel 1987, stavamo al secondo anello, poi scendemmo al primo». Un'altra leggenda narra che ai ras della Curva Sud l'apparizione degli Sconvolts non abbia fatto piacere, e che qualche noia a «Enzino» sia venuta anche per quello. «Per me lo stadio è un capitolo chiuso. Non ci vado più».

Dorme male, Enzo Anghinelli. A agitarlo non sono i postumi dell'operazione al cervello. «No, a stressarmi è quello che mi è successo dopo. É come se invece che una vittima fossi un colpevole. Le sembra normale che mentre ero ancora mezzo in coma mi siano arrivati in ospedale il pubblico ministero e un commissario a chiedermi se avevo o non avevo un box, cosa sapevo o non sapevo dei duecento chili? Io ero lì con la testa ancora aperta, quasi non capivo chi ero. Ma c'è una cosa ancora peggiore. Ho scoperto che il giorno stesso che cercarono di ammazzarmi, su un sito mi definirono collaboratore di giustizia. Cioè pentito. Se io mi fossi pentito avrei fatto la galera fino all'ultimo giorno? Mi avrebbero sequestrato la casa? Ai pentiti le case le danno, mica le tolgono».

Del tipo mai visto prima che nel 1998 gli sparò in pancia e al petto, «Enzino» dice di non avere mai saputo più nulla. E di questi altri due che in via Cadore le hanno sparato al cervello, non ha la curiosità di sapere i nomi? «A questo punto, no. Voglio solo pensare ai miei figli.

E voglio essere lasciato in pace».

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