«Faccio il sindaco, non mi candido» Ma Pisapia ha già la testa a Roma

Più che un cantiere al lavoro in vista delle vicine elezioni politiche, il centrosinistra sembra la solita torre di Babele. In cui la confusione di lingue e idee impedisce ancora una volta ad anime troppo diverse di trovare un'unica rotta per timonare un'impossibile coalizione e (dovesse vincere) soprattutto l'Italia. Ce ne fosse ancora bisogno, a raccontare il panico di un Pd attanagliato dalla solita ansia da prestazione al solo sentir parlare di possibile vittoria, è arrivato ora il pasticcio della «lista dei sindaci». Morta ancor prima di nascere, a leggere le parole di Giuliano Pisapia, uno degli alfieri designati a guidarla intervistato ieri dall'Unità. «Il mio impegno è quello di fare il sindaco di Milano e di farlo bene - spiega - Nessuna candidatura, quindi». Parole di buon senso e che sembrano piuttosto ovvie, visto che dal suo arrivo a Palazzo Marino è passato poco più di un anno e dunque alla fine del suo mandato ne mancano (o ne mancherebbero) altri quattro. Peccato che a riempir le pagine dei giornali e le bocche dei papaveri della sinistra, in questi giorni sia stato proprio il progetto di un gran listone di primi cittadini guidati da Pisapia nominato centravanti grazie alla rivoluzione arancione con cui ha riconsegnato Milano alla sinistra. Perché il ragionamento dell'intellighenzia è piuttosto rudimentale. Ma come, si devono essere detti con gran fumar di cervelli, abbiamo vinto Milano, Torino, Genova, Napoli, Cagliari e poi con l'astensione che galoppa, l'arrivo di un Beppe Grillo qualsiasi e magari il ritorno in campo di Silvio Berlusconi rischiamo di perdere ancora la corsa che vale il governo del Paese? Ecco allora l'ideona di un dream team di sindaci vincenti per portare il segretario Pierluigi Bersani a Palazzo Chigi. Peccato che proprio Bersani, dopo essere stato punzecchiato da Massimo D'Alema, si sia reso conto che la prima vittima dell'operazione sarebbe proprio il Pd. Svuotato di potere e credibilità da bravi amministratori e società civile. E allora la retromarcia. Consulto con Pisapia e Bersani che sentenzia, «nessuno pensa a una lista dei sindaci». Il giorno dopo intervista dello stesso Pisapia sull'Unità e passo indietro. «Dimostrare che si può governare bene la propria città è il modo migliore per valorizzare il centrosinistra per la guida del Paese». Chiaro. Meno chiaro il passaggio successivo. «Se per vincere è necessario avere tre o quattro punte, se dobbiamo allargare il campo, io sono pronto a dare il mio apporto». Quindi, leggendo tra le righe, Pisapia obbedisce e non si candida, ma è pronto a candidarsi. La tentazione resta forte. E la ricetta è pronta. Perché per vincere le elezioni, assicura Pisapia, è necessaria «un'ampia maggioranza di centrosinistra con un programma comune». Un po' basica come strategia, ma da quelle parti già mettersi d'accordo su questo sarebbe un bel successo. Perché subito dopo l'astuto Pisapia allunga a Bersani la polpetta avvelenata di «primarie con regole chiare e condivise da tutti».

Menù su cui nel Pd son tutti d'accordo solo a parole, perché sanno bene, viste le ultime esperienze a cominciare da Palermo, quanto sia rischioso affidare il candidato premier agli incerti umori dei tesserati. E in una Milano d'agosto mai così spoglia di mostre, musica e iniziative c'è un Pisapia che sogna Roma. Ma non può nemmeno dirlo.

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