La prima era stata una vittoria, questo un trionfo. Per la seconda volta il «made in Milan» sconfigge la potenza planetaria di Facebook: una sentenza sancisce definitivamente che i cervelloni californiani agli ordini di Mark Zuckerberg hanno scopiazzato senza complimenti la creatura di una piccola e geniale azienda di Cassina de' Pecchi. Una marachella da scuola elementare, resa più grave dal fatto che la Business Competence (questo il nome della ditta affacciata sulla linea 2 del nostro metrò) aveva dovuto consegnare a Facebook, per vederla abilitata sul social network, la ricetta della sua invenzione. A Menlo Park hanno smontato il giocattolo, ne hanno ricavato le istruzioni, e lo hanno rimesso in servizio con un altro nome e un altro logo. Ma la sostanza era identica.
Concorrenza sleale e violazione del diritto d'autore: queste le colpe che nell'agosto 2016 il tribunale di Milano aveva contestato a Facebook, dichiarandola colpevole di avere copiato la app Faround, inventata dall'azienda milanese, ribattezzandola Nearby. Faround è una piccola diavoleria che informa in diretta l'utente Facebook sui negozi e i locali intorno a lui, ne riporta le prestazioni, i prezzi e le recensioni. Miracoli della geolocalizzazione, la nuova realtà in cui il Grande Fratello sa in ogni istante dove siamo (e anche come pensiamo).
Per ottenere l'annullamento della sentenza del tribunale, Facebook aveva messo in campo uno stuolo di legali di fama: a difesa del proprio orgoglio e dei propri quattrini. Ma ieri la Corte d'appello presieduta da Amedeo Santosuosso le ha dato torto su tutta la linea. La tesi di fondo di Facebook, secondo cui Nearby era già in fase di progettazione da tempo, secondo la Corte non ha trovato alcun riscontro: il capo dei progettatori di Facebook, Daniel Hui, ha potuto portare in aula solo ritagli di stampa e articoli di blog, «poco significativi e sprovvisti di dati». «Le appellanti non hanno prodotto né un business plan, né stati di avanzamento, né altra documentazione idonea allo scopo». E i giudici sottolineano come Facebook abbia impedito al perito del tribunale di accedere ai suoi elaboratori elettronici per verificare la loro tesi. «Può dirsi provata la derivazione dell'algoritmo dell'applicazione Nearby da quella di Faround, e conseguentemente sia la violazione del diritto d'autore sia la commissione di atti di concorrenza sleale», conclude la Corte. Facebook è colpevole di una «appropriazione parassitaria di investimenti altrui per la creazione di un'opera dotata di rilevante valore economico».
Facebook si è precipitata a fare sparire l'applicazione, ma dovrà comunque pagare danni e soprattutto
imparare la lezione. E a Cassina festeggiano: «Siamo orgogliosi - dice Sara Colnago, il giovane capo di Business Competence - di essere stati coerenti con le nostre convinzioni nonostante tutti ci dicessero di lascia perdere».
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