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Faceva il sarto per signora. Poi si è convertito e da 50 anni veste cardinali

A Milano è stato lo "stilista" di Montini e Carlo Maria Martini: "Gli abiti da cerimonia se li passano, basta aggiustarli..."

Faceva il sarto per signora. Poi si è convertito e da 50 anni veste cardinali

«Ho iniziato a lavorare per i preti a trent'anni, prima ero un sarto classico per signora, disegnavo gonne, giacche e cappotti...». Silvio Colombo è nato a Milano nel 1932 in una popolarissima via Zebedia, nel luogo in cui secondo la tradizione fu tenuto prigioniero sant'Alessandro martire. Il futuro sarto degli arcivescovi milanesi frequentava da sempre Sant'Alessandro, chiesa capolavoro del barocco, con il convento dei padri barnabiti, sacerdoti legati a San Paolo, e ha coltivato senza saperlo il curriculum classico dei bimbi buoni, costanti e servizievoli: catechismo, aiuto in portineria e il trionfo da chierichetto sull'altare.

«Un giorno i Barnabiti che avevano questi locali e che conoscevano il mio lavoro di sarto mi hanno chiesto: perché non vieni a cucire qui da noi?». Eccolo qui Silvio, ancora in bottega nonostante sia in pensione, pieno di ricordi che sono un tratto di storia della Chiesa ambrosiana, una vita trascorsa con il metro al collo, le forbici in tasca e l'ago in mano, a misurare, tagliare, cucire e rifinire, cercando il punto con la medesima ispirazione con cui il poeta scova la parola.

Dici «Sartoria ecclesiastica» e pensi di trovarti in un luogo un po' sfarzoso. Invece è una sobria bottega di due stanzette. Su uno dei muri color ocra una collezione di ritratti: Papa Francesco tra l'arcivescovo, Mario Delpini, e il suo predecessore, il cardinale Angelo Scola. E i vestiti di monsignor Delpini? «Gli hanno preso le misure da poco. La sarta è andata e gliene ha aggiustato qualcuno che aveva, perché ha bisogno dell'abito da arcivescovo. Ma non farà troppa roba, solo il necessario». Poi racconta: «Delpini è un uomo semplice, con la bicicletta e la borsa. Lui vorrebbe andare ancora da solo ma non può, perché deve essere scortato. Io servivo anche lo zio quando era in Duomo, un omone alto». Queste le sue ultime imprese, a cui partecipa offrendo ispirazione a chi lavora di mani.

Una veste talare nera con le imbastiture bianche, destinata a un don Emanuele, è adagiata su un manichino. «Vede, questo è l'abito ambrosiano, con il collettino, cinque bottoni e la fascia in vita. I romani invece hanno tutti i bottoni fino in fondo e sono sciancrati con lo sfondo in piega» spiega il signor Silvio, mentre si volta a indicare un abito (romano) dall'altra parte della stanza. Colombo ha vestito di persona numerosi uomini di Chiesa, da Montini al cardinale Biffi, «che poi è andato a Bologna», a Giovanni Saldarini. E per ventidue anni il cardinale Carlo Maria Martini. Una foto, che fa parte di un collage da muro di arcivescovi ambrosiani, ritrae Carlo Maria con le guance piene, in carne come non si è abituati a ricordarlo: «Qui era giovane, proprio all'inizio del cardinalato. Il Martini arrivava da Roma e aveva già parecchia roba per vestirsi, però non ambrosiana. Mi ricordo, gli abbiamo fatto il primo mantello quando ha fatto l'ingresso in Duomo con il Vangelo, leggero, in vero lana. Ma era febbraio, un freddo della miseria. Allora poi gli abbiamo fatto anche quello in panno. Nella settimana in cui era a Rho in ritiro gli abbiamo fatto il mantellone, tipo quello dei carabinieri, il collo in velluto con gli alamari». Altri ricordi: «Gli abbiamo confezionato l'abito rosso da portare nelle funzioni in Duomo, che è andato bene anche per il cardinale Scola. È bastato allargare il collo e accorciarlo, perché Scola era tre centimetri più basso di Martini». Così si scopre che anche i cardinali si passano i vestiti, come i fratelli in casa.

Il sarto Silvio Colombo ricorda di essersi occupato con cura affettuosa delle salme di due beati arcivescovi: «Ho avuto la fortuna di vestire il cardinale Ildefonso Schuster e il cardinale Carlo Ferrari, quando li hanno esumati e messi nelle urne di vetro. Schuster ha la veste rossa ma ha su gli abiti da cerimonia, invece Ferrari la veste rossa morata e la mozzetta con il rocchetto». Memorie lo legano all'arcivescovo Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, «ma arrivava da Roma ed è tornato presto a Roma».
Sua moglie Maria Teresa l'ha lasciato vedovo vent'anni fa. «Per me c'è ancora» risponde sorpreso alla domanda un po' sorpresa sul perché porti la fede all'anulare. È stato quando lei è morta che il signor Colombo ha deciso di passare la mano al successore, anche se in realtà, come si vede, in questa bottega di via Olmetto è sempre presente. Ma due anni fa, quando la «Sartoria ecclesiastica» del centro storico rischiava di chiudere per mancanza di artigiani esperti, a 83 anni suonati, ha risposto all'appello della Curia di formare una nuova classe di «stilisti» per vescovi e sacerdoti: «Ci teneva tanto monsignor Claudio Fontana, mi ha detto: rischiamo di rimanere senza una sartoria ecclesiastica».

Silvio Colombo, lo stilista dei prelati, ha obbedito. Anche per questo il 2 dicembre l'arcivescovo, Mario Delpini, gli ha conferito l'onorificenza pontificia di cavaliere dell'ordine di san Gregorio Magno. A chiederla è stato il cardinale Angelo Scola, per quest'uomo «distinto per affidabilità, discrezione e disponibilità», che «ha servito personalmente gli Arcivescovi di Milano e una nutrita schiera di sacerdoti ambrosiani e di altre diocesi». Lui, il Silvio, quando lo guardi negli occhi trasparenti, è fiero della sua professione almeno quanto è schivo: «No, no, non dica nulla di me, nessuno ha mai parlato di me, io sono abituato a rendere omaggio agli altri, anzi mi è sembrato strano trovarmi seduto, dalla parte di chi è omaggiato col premio». Torniamo a parlare d'altri, allora.

Quando i giovani vescovi ingrassavano, bisognava rifar loro il guardaroba? «No, la gran parte della roba si poteva aggiustare perché c'era il tessuto dentro. Però li consumavano perché andavano in giro per le cresime e le funzioni. Il cardinale Attilio Nicora, da vescovo, quando andava a fare le cresime, a mezzogiorno tornava a casa fradicio e le suore gli mettevano a lavare l'abito. Ne aveva due. Ora i sacerdoti li usano poco perché vanno in giro con i pantaloni. Gli ambrosiani fanno la veste quando sono seminaristi e poi portano il clergy, la camicia da cui vedi solo il plastichino». Non si usa più l'abito? «È obbligatorio averlo, lo ricevi da seminarista. Ma una volta ne facevano tre o quattro perché li usavano. C'è chi ci tiene e lo porta ancora. Altri lo mettono solo se vanno a benedire le case o se c'è un funerale. Spesso li comprano già pronti».

Sartoria o grandi catene, il dilemma è anche un po' sacro.

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