Aveva l'abito della festa, Rosina. E solo otto anni addosso. Era strano pure il nome. Così vintage anche nel Ventennio. Dava l'idea di una signora un po' attempata. Una cameriera. Una massaia. Invece Rosina era una bimba. E non se ne curava affatto di quell'abitino elegante, che la faceva tanto signorina vezzosa. Si era arrampicata lassù. E basta. Sul basamento di un lampione. Sotto i suoi piedi, urlava a squarciagola Gian Luigi. Il fratellino. Cinque anni e tanti capricci. Ma buffi e birbanti. «Anch'io voglio vedere. Anch'io». Zia Natalina se la rideva e teneva per mano il piccolo Enrico che ne aveva solo tre.
Gomito appoggiato al palo, stava un poliziotto dallo sguardo svogliato. Giuseppe Esposito era stato assunto da poco. Faceva il telefonista. In strada, insomma, non ci doveva andare. Poi avevano chiesto rinforzi e non si era potuto tirare indietro. Lui, una matricola o quasi. Così quel giorno era lì, davanti al 18 di piazza Giulio Cesare, con i Ravera che gli ballonzolavano attorno. In una calca fatta di grida e spintoni. Chi si metteva in punta di piedi. E chi saliva sui gradini, appoggiandosi a spalle sconosciute. Abbassando l'altro e innalzando se stesso. Perché tutti volevano vedere e non era una mattina qualunque.
Passava il re e Milano aveva deciso di esserci. Per questo si era riversata in piazza. Grandi e piccini. Tutti stretti a Vittorio Emanuele III. Due baffi alti un tot. Un metro e cinquantatre, ad essere precisi. Non propriamente un gigante. E non svettava. Bisognava stargli attorno, quindi. Ma quel 12 aprile del '28 - sesto dell'era fascista - il sovrano era in ritardo. Colpa di un bizzarro treno da Roma che portava dieci minuti. Perché la verità è che non erano in orario nemmeno «quando c'era lui». La verità fu che quella sfasatura salvò la vita al Savoia, già sfuggito nel '12 a un altro attentato.
Quando mancavano dieci minuti alle 10 la Fiera era in fermento. La piazza trepidava. L'illustre visita aveva fatto salire la febbre. La calca era fitta. Ma il lampione della Rosina. Del telefonista della polizia, prestato alla piazza. Di zia Natalina. Gianluigi e del piccolo Enrico. Saltò in aria. Vomitò schegge di ghisa in ogni dove. L'agente fu catapultato a qualche metro. «Lo vidi rompersi tutto» disse un testimone. E sul selciato rimasero 14 corpi senza vita, ai quali se ne sarebbero aggiunti altri sei nei giorni successivi. Decine i feriti. Senza un graffio, il monarca, che arrivò a scoppio avvenuto. Per supremo scorno degli attentatori che avevano sistemato l'ordigno a orologeria nella base di ghisa perché - esplodendo - facesse il massimo dei danni.
Come italico costume, già allora, i responsabili non furono mai acciuffati. Vennero incolpati gli anarchici. Poi prosciolti. Gli antifascisti di Giustizia e Libertà. Poi prosciolti. Il fuoco amico del regime. Mai accertato. La giustizia archiviò qualche suicida vergognoso. E nessuna lapide ricorda quella strage consegnata all'oblio. Gli assassini, a piede libero ma con gli orologi puntuali, maledirono i treni in ritardo del Duce. E Vittorio Emanuele entrò in Fiera, che nulla ha a che spartire con il latino fera - cioé belva - e invece è parente stretto di feria , ovvero festivo. Un termine che sintetizza e traduce il divieto di esercitare la giustizia e convocare i comizi stabilito in età romana per i giorni dedicati al culto.
Come da otto anni, quel 12 aprile, seppur insanguinato, la Campionaria aprì i battenti. Ufficialmente fu inaugurata nel 1920, ma la sua nascita non sorprese nessuno. Fin dal 1850 Milano aveva guardato lontano. Allora aveva il suo gioiello. I prodigi della scienza e della tecnica scendevano in terra «a miracol mostrare». Davanti agli occhi sbigottiti dei bimbi, per i quali quei padiglioni erano una festa. L'appuntamento con il futuro. Saccheggio onnivoro. E pacchi di carta a testimoniare che un giorno la plastica avrebbe dominato il mondo. Le turbine l'avrebbero mosso. Sole e vento avrebbero creato energia. E il vinile avrebbe fatto ballare generazioni di innamorati.
In uno dei tanti aprile consacrati alla Campionaria comparve perfino una darsena. Era il '52. In piazzale Milano ancorarono barche a vela e accesero i sogni di chi s'immaginava al timone. Solcando i mari. I ragazzi rastrellavano gli opuscoli con gli scafi ultimo grido. Da piazza Giulio Cesare, un nome che respingeva addietro nei millenni, in realtà si entrava nell'iperuranio della tecnologia. Il domani, oggi. Il presente, coniugato al futuro.
Eppure, sei anni prima, nel '46, la Fiera aveva ospitato la grande musica. Guerra finita da poco e Scala semidistrutta. Fu il Maestro dei maestri a lanciare la proposta. Il 20 luglio Arturo Toscanini lanciò il sasso nello stagno. «Apriamo qui la stagione scaligera». Il palazzo dello sport divenne il più grande teatro coperto del mondo. Poi, l'orchestra tornò a casa. E la Campionaria riprese a vivere dopo la ferita più dolente. Con quell'unico cruccio che tormentava ogni bambino. «Mamma, non possiamo comprare nulla». E occorreva retrocedere ancora, negli anni e nella storia, per spiegare che la fiera è quella dove i commercianti vendono tutti i loro prodotti, la Campionaria invece è una grande kermesse. Punto. E vi partecipano tutti gli operatori economici del ramo, appunto, con i loro campionari. Mostrando a quel piccolo mondo antico di un Paese in crescita lati e perimetro della loro produzione. E potenzialità.
Oggi non esiste più nulla. In questo nostro aprile trimillenario, il 14 avrebbe visto l'inaugurazione numero 95 di un appuntamento che dal 1984 smise di chiamarsi Campionaria. Divenne la Grande Fiera d'aprile. E il 10 giugno 1991 accolse forse il suo ultimo grande ospite. Papa Giovanni Paolo II vi lesse la sua Laborem exercens . Poi rassegne e mostre specializzate ne decretarono il tramonto.
Ora CityLife, transatlantico in cemento armato, ha messo gli ormeggi dove FieraMilano inventò il suo lago. La fontana fu chiusa. La crisi d'inizio secolo aveva sentenziato che una bolletta annua di un milione e 200mila euro il Comune non poteva pagarla. La «Quattro stagioni» non aveva circuito chiuso. L'acqua non poteva essere riciclata. E lo spreco era ingente. C'è stato chi calcolò che il suo consumo, in dodici mesi, equivaleva a quello di quattromila famiglie. A ottobre ha ripreso a spruzzare acqua grazie al restauro architettonico e impiantistico. Una vasca di raccolta consente di ottimizzare la gestione idrica, proveniente dalla falda. Tecnologia del Duemila. Impensabile nel 1927, quando l'architetto Renzo Gerla la progettò. Ma per i ragazzi degli anni Settanta, la Campionaria resta quello che per sempre fu. Un tappeto di carta. Sacchetti. E opuscoli che coprivano piazza Giulio Cesare. E una fiumana che sfollava sguardo a terra. Per vedere, da quelle figure spiegazzate e gettate, se qualcuno aveva trovato qualche novità più nuova della nostra. E l'aveva gettata. Perché i sogni, in Fiera, duravano un attimo. Anche se erano di carta.
I progenitori della Fiera sono Lipsia e le città tedesche. Dove è in mostra di tutto e di più. Nel 1871 Milano se ne creò una tutta sua. L'esposizione di palazzo salone ai giardini pubblici era un assaggio. Nel 1881, in via Palestro fu allestita un'esposizione nazionale. Durò sei mesi, dal 5 maggio. Nel 1894 nacquero le Esposizioni riunite, dietro il Castello, verso l'Arena (nella foto).
Si trattava di 11 mostre a tema. Belle arti. Arti teatrali. Fotografia. Vini e olii. Macchine vinicole. Mostra operaia. Sport. Geografia ed etnografia. Filatelica. Arti grafiche. Pubblicità. Poi nel 1906 venne il primo Expo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.