Roba da brividi. Sullo schermo, in fondo a quello che una volta era il corridoio del quarto raggio di San Vittore, scorrono le immagini di una tragedia vecchia come il mondo: Cesare e Bruto, il potere e l'ambizione, l'amicizia e la morte. Di fronte, nel braccio trasformato in platea, duecento persone divise rigidamente a metà. Sulle sedie davanti ci sono giudici, politici, giornalisti. Sulle sedie dietro ci sono cento detenuti: venticinque donne e settantacinque uomini. Tutti con la loro condanna sulle spalle, a volte pesante, a volte meno. Pochi metri li separano, ma sono due mondi lontani e forse incomunicabili. Le scene che fanno ridere i detenuti lasciano impassibili gli altri. Quando finiscono i titoli di coda, i i detenuti vengo senza perdere tempo rispediti in cella, mentre i normali, i liberi, restano lì ancora un po' a chiacchierare, a riprendersi da una esperienza inconsueta e complicata.
Per un'ora non c'è stata solo la proiezione di un film che parla di carcere e ambientato in carcere: c'è stata anche la percezione fisica di essere a propria volta all'interno di un carcere, a contatto di fiato con gente che nel carcere ci vive davvero. E dentro di sè ognuno dei liberi si domandava: cosa racconteranno queste immagini agli altri esseri umani che sono qua con noi, che in questa enorme gabbia vedono passare i loro anni, e stasera vedono il mondo del carcere raccontato senza eufemismi davanti a noi normali? Sarebbe bello potersi fermare a parlarne, dopo, con i detenuti. Ma non c'è tempo, e forse c'è il pericolo che i due mondi si mischino troppo, e qualcuno magari ne approfitti per cercare di farsi due passi all'aperto. Così c'è spazio solo per qualche domanda buttata lì, al volo, mentre già le guardie li accompagnano verso la scala che li riporta in cella. Vi è piaciuto? "Sì" Perché ridevate? "Perchè parlavano dialetto".
Il film, ovviamente, èdei fratelli Taviani. Se ne è parlato molto, fuori, anche perché ha vinto l'Orso al festival di Berlino. Appartiene alla famiglia vasta del teatro dentro il cinema, che spesso ha come protagonista Shakespeare. Anche i Taviani hanno scelto Shakespeare, il "Giulio Cesare". Ma lo hanno raccontato attraverso la messa in scena che ne fanno i detenuti del reparto di alta sicurezza del carcere romano di Rebibbia. Gente con condanne decennali sule spalle, e a volte marchiata dal cupo "fine pena mai", il gergo carcerario per l'ergastolo.
Come vada a finire la tragedia lo sanno tutti, e tanti sanno anche come va a finire il film: con la frase del detenuto che ha avuto la parte di Cassio, quando a recita finita torna in cella e dice "Da quando ho scoperto l'arte questa cella è diventata una prigione", conclusione tutt'altro che consolatoria su quanto inutile e forse ingannevole sia una liberazione tutta affidata alla cultura e non alle condizioni concrete dell'esistere. Il film dei Taviani è una botta nello stomaco di per sè, ed è forse il ritratto più veristico della vita in carcere che sia visto in un film italiano. Ma martedì sera è accaduto qualcosa di più. Gli avvocati della camera penale di Milano hanno chiesto di poterlo proiettare in carcere. E non nel gelido Opera, o nell'umano (si fa per dire) Bollate: ma proprio nel cuore di Milano, in quella malabolgia cadente e sovraffollata che è San Vittore. E di avere come pubblico gli ultimi degli ultimi dell'universo carcerario, gente che vive pigiata in sei in una cella di due metri.
Non deve essere stato facile mettere in piedi l'organizzazione. Ma il percorso culturale che ci stava dietro era così affascinante (portare dentro un carcere un film che parla di carcere; portare una storia di violenza dentro un luogo che di violenza è segnato) da far innamorare un po' tutti. Ha detto di sì il Ministero della giustizia, ha dato il suo via libera la direzione delle carceri. Così il progetto è diventato realtà. E' arrivato il sindaco Pisapia, con i suoi assessori, sono arrivati giudici e pubblici ministeri che la gente in carcere ce la mandano per mestiere, avvocati che cercano di tirarli fuori, gli psicologi che cercano di tenerli a galla. E sono arrivati loro, i cento detenuti che hanno fatto "domandina" (qualunque istanza in carcere si chiama così) di esserci. Un blocco compatto su quindici file di sedie. Le donne davanti, silenziose. Gli uomini dietro, più irrequieti, che a volte si stufano e se ne vanno, chiedendo agli agenti di riportarli in cella: anche perché il film è parlato in larga parte in dialetto,e si può immaginare cosa ne capisca un detenuto arabo o slavo. Ma in larga parte tutti con gli occhi fissi sullo schermo. Forse invidiando quei loro colleghi di carcere che sono diventati Cesare, Decio, Ottavio, Antonio. Ma forse in cuor loro condividendo almeno un po' la diffidenza con cui, nei film, un detenuto di lungo corso dileggia il detenuto che ha avuto la parte di Bruto: "Invece di farsi il carcere seriamente questo qui si è messo a fare il buffone".
Giornalisti, giudici e avvocati guardano in silenzio la tragedia che scorre sullo schermo: ma sempre con la testa a quelli dietro, a come loro possono vivere questa storia. Come non pensare che l'assassinio di Cesare non somiglia dannatamente ad un regolamento di conti? Come non cogliere che le due orazioni funebri davanti alla salma del tiranno, quella di Bruto e quella di Antonio, sono intrise di un linguaggio quasi da malavita, e che in qualche modo deve suonare familiare a molti di questi spettatori particolari? E che quando Antonio dice che "Bruto è un uomo d'onore" questa frase suona agli orecchie di un detenuto probabilmente diversa da chi la sente da uomo libero?
Domande che non c'è tempo e modo di fare. I detenuti scivolano via verso i loro raggi. Giuliano Pisapia, che è stato accolto con un applauso, ricorda che "questa è una sera importante, perché è un passo verso un carcere sempre più aperto, uno specchio della città in cui la città deve imparare a specchiarsi". Il sindaco, che faceva l'avvocato,il carcere lo conosce bene, e sa che una esperienza di avviamento al teatro come quella raccontata dal film dei Taviani a San Vittore sarebbe impensabile, perché mancano le risorse e gli spazi fisici, e le celle di Rebibbia che si vedono nel film, nella vecchia casanza di piazza Filangieri se le sognano.
Ma il sindaco tiene anche a dire che il posto di San Vittore, "possibilmente ristrutturato e meno affollato" è lì dove si trova adesso, perché pensare di spostarlo aprirebbe chissà quali appetiti edilizi, e aiuterebbe la città "a dimenticarlo, a rimuoverlo". Giudici, avvocati e giornalisti sciamano all'esterno,nella tiepida serata di aprile. "Andiamo da Spontini?". La tragedia sullo schermo è finita. Dentro, il dramma continua.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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