GIALLO milanese

Venerdì
Il capannone si arroccava in una fitta boscaglia alla periferia industriale di Rho, incagliato tra le montagne di terra smossa dai cantieri stradali della Fiera. Fuori, i fari delle auto correvano nel buio.
Dentro, invece, nessuno aveva fretta. Nella gabbietta di un metro per un metro disposta in fondo al ring di sabbia, il pitbull fulvo girava nervosamente su se stesso, tra le urla degli scommettitori. Più in là, il rottweiler, nero carbone, ringhiava maledettamente. Forse per paura. Partiva favorito: in tre settimane quattro incontri vinti, due mortali. Giravano molte voci su di lui. Deformato dalle iniezioni di testosterone, si diceva riuscisse a resistere venti ore appeso ad un quarto di bue attaccato al ramo di un albero. E che ormai, il bastone elettrificato non lo sentisse neppure, tanto era indifferente al dolore. Pare anche che, un'ora prima di ogni duello, gli buttassero nello stomaco una palla di sale, rendendolo un diavolo. Non a caso, lo chiamavano El Diablo. No, forse non aveva paura. Forse.
Una cancellata ovale arginava il ring. Per terra, in prima fila, i bambini. L'allibratore, un osso d'uomo dai capelli neri tirati indietro, arrivò avvolto in una salopette nera, e sfilò tra loro a raccogliere le puntate, giunte in coro: «El Diablo, El diablo…»
L'osso passò lì, e sugli spalti in legno, messi su con assi disposte tra ponteggi arrugginiti. Mi fece un cenno con la testa. Srotolai una mazzetta senza nemmeno guardarlo. «Mille sul pitbull».
Sputò per terra. E ghignò: «Contento tu…»
Consegnò il «grano» al ciccione abbarbicato su una cassa d'acqua, il boss brizzolato che chiunque, nell'arena, chiamava Sandokan, con tanto di Marianne russe ai piedi.
Si giocava l'ultima sfida della notte. Il caldo di luglio e le luci abbaglianti agli angoli rendevano insopportabile l'odore del sangue. A un ordine di Sandokan, sui cani vennero gettati secchi di latte, perché c'era sempre chi faceva il furbo, cospargendo la propria bestia di veleni letali al morso, o di grassi che li avrebbero resi viscidi nella lotta. Ora toccava a loro. Il boato del pubblico coprì i latrati. Il pitbull sgozzò il rottweiler in due minuti. Mi passai le dita sugli occhi. E mi accorsi che erano umidi.
Sabato
«Papà, me lo comperi un cane?». Mi ero svegliato di soprassalto, infradiciato, in una pensione diroccata. Colpa dell'incubo, ogni volta lo stesso, come se quella frase fosse stata pronunciata in quel momento, e non quindici anni prima. «Papà me lo comperi un cane?».
Mi sciacquai su un lavabo unto, scagliando via uno scarafaggio. Sopra, c'erano i resti di uno specchio. Mi guardai e ancora una volta, la vita mi passò davanti: con il rottweiler alfine comperato, che da cucciolo era diventato rapidamente una bella bestia da cinquanta chili. Lo avevamo chiamato Fox.
Già, Fox… Quando il fatto accadde, fu chiuso come un incidente. Tirai fuori dalla tasca il ritaglio di giornale che mi portavo sempre dietro. Mi asciugai il volto. E lo rilessi ancora: «Tragica fatalità. Una donna, Maria Dolores Fantini, aggredita e sbranata nel recinto dal suo rottweiler.» Balle. Se quella avesse saputo che Fox era destinato a un combattimento non avrebbe mai aperto la gabbia. Se avesse saputo della prova dello scratch, e che cioè era stato affamato apposta per fargli assaltare in un parco il primo cane che passava, oggi sarebbe ancora viva. Viva. Viva.
Invece arrivai tardi, Fox l'aveva azzannata alla gola. Riuscì a sibilare solo un «perché?», prima di crollare. E… dannazione, i rimorsi non smettevano mai di soffocarmi.
Poco dopo si erano messi di mezzo gli assistenti sociali. Scrissero che «dopo la morte della madre, Maria Dolores Fantini, il piccolo Gabriel vive in un contesto disagiato e deve dunque essere affidato a una comunità».
Nel giro di due mesi ero rimasto solo. Io e i miei rimorsi. Ma la vita, mi dicevo, è solo una discarica di sogni.Pagai la fottuta tenutaria della bettola, e mi decisi a svuotarla.
Domenica
Da dieci anni non mettevo piede a Le Trottoir, locale noto per gli artisti e per la battaglia che aveva ingaggiato a lungo con la polizia municipale. Dicevano che l'arte non poteva essere fermata. E infatti non chiudevano mai. I vigili non gradivano. E multavano. Finì che Le Trottoir sloggiò da corso Garibaldi e trovò rifugio a piazza XXIV Maggio, in un bastione. Diventando una specie di faro nel mare, luce notturna di una città da troppo tempo spenta. Affogai in due Cuba Libre e uscii ad aspettare a breve distanza, sotto l'albero degli impiccati, la quercia secolare a cui Maurizio Cattelan aveva appeso tre manichini di bambini. Prima che un pittore, Giuseppe Veneziano, gli giocasse il contrappasso calando dal medesimo ramo il cappio a un ritratto di Cattelan. L'albero degli impiccati ora stava quasi venendo giù. Forse non reggeva il peso dell'arte. Di certo pensai che fosse un posto buono per morire.
Tramite «amici influenti» avevo fatto dire che avrei riscosso lì i tremila euro della vincita sul pitbull. Guardai la luna e respirai forte. La Mercedes parcheggiò alle tre sul marciapiede. Sandokan lasciò le russe sui sedili e dondolò verso di me con una mazzetta da cento euro e un sorriso ebete stampato sul volto. Appena mi fu di fronte, una alla volta, cominciò a calcarmele sulla mano: «Certo amico che sei strano…».
All'inizio non realizzò, perché fece in tempo a mettermi un altro centone sul palmo. Poi vide la lama che gli aveva tagliato la pancia da parte a parte. Alzò gli occhi. Disse solo «perché?». E schiantò al suolo. E io… be', io, scoppiai a ridere.
Lunedì
«Vede, commissario, è tutta colpa mia. Non avrei mai dovuto chiedere a un bastardo come Sandokan di regalarmi un cane. Mai. Ma mai avrei pensato che avrebbe mandato anche il mio rottweiler, Fox, a combattere. Perché, capisce, Sandokan era mio padre. Ma molti anni fa. L'ultima volta che mi vide ne avevo undici.

E' crepato senza nemmeno riconoscermi, chiedendomi solo perché?: la stessa parola che gridò mia madre, Maria Dolores, davanti ai miei occhi, il giorno che Fox la sbranò… La stessa parola precisa… A volte penso che non sia la vita ad essere bizzarra, commissario. La vera bizzarra, è la morte».

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