A osservarlo da vicino mentre con pazienza certosina corregge un gesto o suggerisce una diversa intonazione ai numerosissimi interpreti (22 signore e 3 signori) del nuovissimo testo dell'argentino Rafael Spregerburd intitolato Il panico in scena allo Strehler, Luca Ronconi accentua in modo del tutto involontario ma efficacissimo la sua nuova incarnazione. Quella tipica di un laico illuminato da un fervente incontrollabile stimolo religioso. Glielo dico e una franca risata stabilisce subito un immediato contatto col grande regista che l'8 marzo prossimo festeggerà i suoi ottant'anni. Viene quindi spontaneo chiedergli di fronte a una vigilia così importante, chi e quanti siano stati i suoi maestri di vita. Storici e pensatori oppure i grandi autori del passato e i registi che, nei lontani anni cinquanta, hanno segnato le sue prime performance di attore?, gli chiedo con circospezione. Luca ride. Ma poi si riprende subito. «Devo premettere - confessa - che i primi sono stati gli scrittori che ho amato. Quelli che da ragazzo, leggendoli, stimolavano fin da allora la voglia pazza di vederli sulla scena incarnati dai mostri sacri che ammiravo. Che gioia immaginare la Ferrati e Salerno nei panni di Raskolnikov e dell'usuraia in Delitto e castigo, e che piacere perverso sorprendersi a quindici anni in un immaginario colloquio con Dostoevskji! Ma sono sogni che tutti abbiamo avuto, no?»
Credo proprio di no, invece. Anche se la mia domanda
suggeriva ben altro...
«Lo so, e mi affretto a colmare questa lacuna. Con la precisazione che, neanche volendo, potrei mai dimenticare Silvio D'Amico che reggeva le sorti dell'Accademia o tantomeno Orazio Costa che, con un rigore di cui oggi abbiamo perduto lo stampo, nelle sue indimenticabili lezioni riportava il verso di Dante o quello dell'Alfieri a una dimensione quasi sacrale».
Ma tra i contemporanei c'è qualcuno che ha prediletto in modo speciale?
«Il mio grande rimpianto è quello di aver frequentato così poco Pasolini. Di cui ho messo in scena Pilade, Affabulazione e in due edizioni diverse Calderòn purtroppo dopo la sua scomparsa. Chissà cosa sarebbe derivato da una sua partecipazione alla genesi di quei miei lontani spettacoli!».
A proposito, è vero che si appresta, la prossima stagione, a portare in scena qui al Piccolo un romanzo-saggio controverso come «Petrolio»?
«Prematuro parlarne».
E di Spregelburd allora? È stato proprio il giovane autore sudamericano a rompere il ghiaccio che fino a qualche anno fa sembrava impenetrabile tra Ronconi e la drammaturgia contemporanea?
«Adesso non esageriamo. Dato che da sempre, anche se qualcuno fa finta di non ricordare, ho alternato i classici ai cosiddetti moderni. Con italiani come Baricco o un grande maledetto come Rodolfo Wilcock, considerato a torto uno straniero date le sue origini, ma presto divenuto italianissimo tra i poeti dell'avanguardia con quel testo XX. Dove, a Parigi, mi divertii a muovere i miei interpreti in venti stanze diverse».
Tutto qui?
«Le sembra poco? Chi ha avuto come me la fortuna di collaborare con Sanguineti all'epoca dell'Orlando furioso ha il diritto di lamentarsi?»
Superfluo chiederle, allora, se ha dei rimpianti?
«Ne ho invece parecchi. Tra cui quello di non aver conosciuto Simone Weil, la mistica della passione, la sola autrice che ha testimoniato nel corpo e non solo nello spirito la tragedia e i limiti della democrazia».
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