I preti ribelli della Resistenza che salvarono fascisti e kapò

Don Barbareschi, eroe per gli ebrei, aiutò anche un SS. E padre Turoldo evitò il linciaggio a uno squadrista

I preti ribelli della Resistenza che salvarono fascisti e kapò

«Così cominciai la mia prima notte di Resistenza. Sapevo benissimo su quale versante stava la verità. Ma l'uomo va salvato su tutti i versanti». Sono parole di padre David Maria Turoldo, frate dei Servi di Maria, uno dei sacerdoti ambrosiani «ribelli per amore» tra il 1943 e il 1945, che con il confratello servita padre Camillo De Piaz fu protagonista della lotta di liberazione dalla chiesa di San Carlo al Corso. Nessun dubbio «su quale versante stesse la verità», ma nella sua prima notte di Resistenza salvò dal linciaggio uno squadrista fascista. Annota lui stesso: «26 luglio '43, giorno della caduta di Mussolini... in via Passatella c'era uno squadrista, ora cercato a morte. I parenti accorrono a mani giunte: Padre ce lo salvi, è un disgraziato. Che fosse disgraziato lo sapevo; sapevo anche che aveva fatto molto male verso gli operai; era giusto dunque che pagasse. Ma in quale modo?... Fu un miracolo ottenere un'ambulanza. L'accoglierà un ospedale».

Una testimonianza toccante di amore che va oltre tutto, come ce ne sono tante nel libro Memoria di sacerdoti ribelli per amore 1943-1945 di don Giovanni Barbareschi, riedito dopo 32 anni dal Centro ambrosiano a cura di Emanuele Locatelli, con una prefazione di Marco Garzonio che insiste sull'attualità del «virus dell'indifferenza» di cui in quegli anni furono vittima ebrei, ricercati politici, renitenti alla leva. Nella presentazione del 1986, il cardinale Carlo Maria Martini annotava che la loro è stata «anzitutto una resistenza morale, la loro ribellione è stata la scelta consapevole dell'umano contro il disumano». Eppure «sono stati... soltanto, pienamente, unicamente preti. Lo testimonia anche il fatto che dopo il 25 aprile '45 non hanno esitato ad aiutare gli altri, i nuovi ricercati, perseguitati, braccati».

Vale prima di tutto per lui, don Giovanni Barbareschi, nato a Milano l'11 febbraio 1922. Tanti gli episodi noti della sua lunghissima vita che continua, numerosi gli uomini salvati e non solo personaggi come Indro Montanelli, che in una dedica lo chiamò «il mio Caronte».

Onorato nel Giardino dei giusti da un attestato di riconoscenza della Comunità ebraica italiana, fu lui, il 10 agosto 1944, a benedire le salme dei 15 partigiani fucilati ed esposti in piazzale Loreto. «Storia meno nota è che don Giovanni era in piazzale Loreto a benedire le 18 salme dei fascisti fucilati a Dongo anche il 29 aprile del 1945, quando i corpi di Benito Mussolini e Claretta Petacci furono esposti a testa in giù» racconta Locatelli all'Ambrosianeum, sede della presentazione del libro. Aggiunge Marco Garzonio: «Don Giovanni mi ha raccontato che Schuster aveva mandato un messaggio dicendo: O tirate giù questi corpi o vengo io a tirarli giù».

Pietà cristiana come quando don Giovanni, nel gennaio 1948, posa con l'ex colonnello delle SS, Eugenio Dolmann. Barbareschi racconta: «Dopo il 25 aprile era venuto da me e io ho sentito il dovere di salvare lui come avevo salvato gli altri. Consegnandolo alle autorità costituite, non in mano al popolo che voleva vendicarsi con giustizia sommaria». Lo tenne nascosto per tre mesi nella casa Alpina di Motta, poi lo portò personalmente in Svizzera. Il 4 marzo 1948 Dollman gli offrirà il suo diario personale come ringraziamento per avergli salvato la vita.

Colpisce che a aiutare i fascisti nell'ora dei linciaggi furono gli stessi uomini eroici nella Resistenza. «Nell'anniversario delle leggi razziali del 1938, serve un bagno d'umiltà del mondo cattolico e ricordare che non tutta la Chiesa ha condannato le leggi razziali» dice Giorgio Vecchi, docente di Storia contemporanea all'Università di Parma. Le storie belle però non mancano.

Nel libro c'è Francesco Bertoglio, tra il 1943 e il 1945 rettore del Pontificio Seminario lombardo a Roma, arrestato dal maresciallo Koch delle SS, autore di rastrellamenti a Roma e nei conventi di Assisi.

Accusato di aver dato ospitalità a un comunista, a un anarchico, don Francesco Bertoglio rispose a Koch: «Prima di essere comunista è uomo, bisognoso di aiuto. La carità non guarda in faccia nessuno, non guarda alle idee, non guarda alle tessere. Domani sono pronto a fare altrettanto in vostro favore».

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