Il suo motto, scolpito come incipit nel sito che lo identifica nella rete, è «L'amore per la vita è anche voglia di mangiarla». E di fame per la vita lo chef Enrico Bartolini ne ha talmente tanta da aver sparigliato nel giro solo di tre anni lo scenario dell'alta cucina italiana. Cioè da quando, nel 2016, ha preso le redini del ristorante del Museo Mudec di Milano dove ha conquistato due stelle Michelin. A cui si sono rapidamente aggiunte quelle ottenute al Casual Restaurant di Bergamo Alta, all'Andana Resort di Castiglione della Pescaia, al Glam di Palazzo Venart di Venezia, al Relais del Sant'Uffizio nel Monferrato. In totale fanno sei stelle, un vero e proprio record consacrato dall'ultima edizione della guida rossa, amplificato dal fatto che il cuoco originario di Pescia, non ha neppure quarant'anni. «Molto c'è ancora da fare - dice con aria sorniona - perchè il difficile viene adesso, cioè consolidare i successi». Ma non sarà un'impresa difficile per il cuoco imprenditore che sognava Milano e che è riuscito nell'impresa di battere le classifiche in quattro regioni dall'identità gastronomica totalmente differente.
«Questione di metodo - dice oggi - e di squadra», avvalorando una volta per tutte una tendenza contemporanea che mette il genio al servizio della disciplina ma soprattutto della scientificità. Una dottrina che il giovane Bartolini aveva nel sangue fin da quando, a soli 29 anni, conquistò la sua prima stella ai fornelli del ristorante Le Robinie in Oltrepò Pavese. E che ha sviluppato anche in Oriente con l'apertura del ristorante Spiga di Hong Kong. Ma globalizzazione è una parola che non gli piace. «Io mi sento profondamente italiano e in ogni piccolo luogo del Belpaese dove ho aperto ho voluto rispettare al massimo la biodiversità e la tradizione gastronomica del territorio. Ovviamente filtrandole con la mia visione di cucina». E l'identità - sottolinea - rappresenta il vero grande antidoto alla «globalità che ci rende tutti uguali, in cucina come nella vita». Il lavoro di squadra è un caposaldo nella sua concezione e la scelta dei collaboratori che hanno contribuito al successo del suo «firmamento» è stata la carta vincente. Il training oggi parte dalle cucine del Mudec, il ristorante di cui ha preso le redini dopo lo stentato inizio della gestione «Giacomo».
Oggi il locale, che si affaccia dal tetto del museo di via Tortona, è un gioiello di diciotto coperti che, all'occorrenza si moltiplicano per i grandi eventi. Alle pareti, dipinti contemporanei di eccellente gusto, a corollario di una ristrutturazione voluta dallo stesso Bartolini. L'arte non è solo un omaggio al museo ma la passione vera di uno chef che è anche collezionista. «Credo che l'accoglienza, la cortesia, l'ambiente siano fattori imprescindibili a suscitare l'emozione di un'esperienza, e valgono quanto la creatività di un piatto». I piatti, quelli, sono una formula perfetta che non devono mai mancare di suscitare un ricordo, come il suo «riso e latte con civet di lepre», o come l'agnello con le sue animelle. Ricette che Bartolini ama classificare come esempi del suo concetto di classicità contemporanea. «Il significato è che oggi nessuno inventa nulla, ma alla matrice tradizionale di una ricetta oggi possiamo affiancare una ricerca sugli accostamenti e una conoscenza delle tecniche che fanno la differenza». Il lavoro di squadra, si diceva. «Le sei stelle sono il frutto della condivisione con i cuochi che ho scelto per la loro mentalità, ognuno dei quali ha un'alta conoscenza del territorio e mi dà spunti preziosi. I miei maestri? Sono un autodidatta che ha iniziato nella cucina di suo zio e sognava di imparare bene la ricetta dei maltagliati ai funghi.
Ma chi mi ha davvero aperto gli occhi sull'alta cucina è stato Massimiliano Alajmo». Anche lui, guardacaso, fu il più giovane chef ad aver conquistato tre stelle Michelin; ma, come talvolta accade, l'allievo supera il maestro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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