Lyudmyla, infermiera del reparto di Emergenza urgenza all'ospedale San Carlo, ucraina, si è offerta di collaborare con Areu nell'accoglienza e nell'accompagnamento dei bambini oncologici che arrivano in Lombardia per sottoporsi alle cure. Quando è arrivata in Italia?
«Sono arrivata nel 2014 e mi sono subito trovata bene. Ho fatto la badante, poi la babysitter e sono stata accolta da una famiglia meravigliosa. Ci sono a Milano persone straordinarie. Sono venuta dall'Ucraina da sola, lasciando nel mio paese la mia bimba d 2 anni con mia madre, suo padre era morto: se lì guadagnavo 50 euro al mese qui ne prendevo 800. Ma è stato uno strazio per me, mi sono persa gli anni migliori di mia figlia, che nessuno mi restituirà mai».
Poi cos'è successo?
«Sono stata tanto supportata dalla famiglia presso cui lavoravo, mi trattavano come la loro terza figlia. Quando ho cominciato a uscire con quello che sarebbe poi diventato mio marito, la signora mi truccava, mi pettinava, mi prestava i suoi vestiti. Siamo rimaste molto legate. Dopo due anni mi sono sposata, e sono riuscita a portare qui mia figlia, che allora aveva 6 anni. Ora sta seguendo la Magistrale e io ho realizzato il mio sogno».
Quale?
«Diventare medico: in Ucraina non si può studiare se non si è ricchi, quindi avevo rinunciato. Qui, grazie anche a mio marito ho potuto studiare all'università dell'Humanitas e sono diventata infermiera nel 2018».
Adesso è al reparto di emergenza del San Carlo..
«Si ho vinto il concorso e sono entrata e devo dire che mi trovo benissimo. Non solo, sono stati tutti disponibili a venirmi incontro con i turni e i permessi».
Per la sua collaborazione?
«Per collaborare con la fondazione Soleterre e Areu, come mediatrice culturale e traduttrice».
Cosa fa esattamente?
«Sono andata qualche settimana fa in Polonia con la missione organizzata da Regione Lombardia e Areu per prendere dei bambini malati oncologici che avevano bisogno di cure e accompagnarli qui, mi sono offerta fin da subito per fare da mediatrice e accogliere i miei conterranei. Lì ho conosciuto la Fondazione Soleterre, e ho offerto anche a loro la mia collaborazione per la traduzione delle cartelle cliniche dei pazienti: la maggior parte delle persone che arrivano, mamme con i loro bambini, sono persone semplici, non parlano inglese, ma solo russo o ucraino. Aiuto anche nella traduzione dei documenti alla dogana. Alcune donne erano talmente disperate e spaventate che ho lasciato loro il mio numero di cellulare. Dormo con il telefono sempre acceso, sotto il cuscino. Le mamme mi hanno raccontato che i medici hanno detto loro di chiamare se qualcosa non va con la chemio dei piccoli pazienti (sono alloggiati in appartamenti vicini agli ospedali dove si sottopongono alle cure) ma loro non possono parlare con i dottori non conoscendo la lingua! La situazione è terribile, mi sento uno straccio, non dormo la notte, penso che io sono qui al sicuro e i miei concittadini no. Dobbiamo fare di più».
Pensa che non si stia facendo abbastanza?
«No, non conosco molti ucraini qui, ma tutti i miei conoscenti sono impegnati. La cosa straziante è che mi sono sentita chiedere da conoscenti se potevo portare qui i loro parenti con gli aerei. È stato orribile, ho dovuto spiegare loro che io accompagno bimbi malati e che dobbiamo pensare in grande, non a noi stessi. Io ho un nipotino di 9 anni in Ucraina, mio fratello e la sua famiglia, quando ha saputo che accompagno qui i bimbi ucraini ha smesso di parlarmi...».
In che senso?
«Mi ha detto Perchè porti via da qui gli altri bambini e non me? Si è così arrabbiato che adesso non mi parla più.. Solo lui e sua mamma potrebbero venire via: la sorella maggiore che è infermiera non può uscire dal Paese e la mamma non si è sentita di partire lasciando gli altri figli laggiù...».
Riesce a sentirli?
«A tratti. Sono in contatto anche con i miei compagni di scuola, amici e vicini. Vivo nell'angoscia che squilli il telefono per portarmi una brutta notizia. Ma è inevitabile...
provo disperazione, impotenza, dolore e paura. Dolore per gli orfanotrofi bombardati in Ucraina senza pietà, per le atrocità che vedo, ma anche per quei poveri ragazzi russi, che sono vittime. Ma non provo odio nè rabbia».
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