"Io con la mia Orchestra fuori dal coro come... Indro"

Lo showman torna con un concerto agli Arcimboldi «Sono ambasciatore della musica italiana nel mondo»

"Io con la mia Orchestra fuori dal coro come... Indro"

«Non sono canzonette. Non lo sono mai state». Se ci si chiede dove trovi l'energia Renzo Arbore - a 81 anni suonati per girare l'Italia e il mondo con la sua Orchestra Italiana, la risposta è in queste parole. La sua è una missione per conto della musica italiana. Napoletana in particolare. Questa sera agli Arcimboldi lo showman pugliese la racconterà in note, ma in questa sede lo fa in parole.

Di che missione si tratta, signor Arbore?

«Guardi, con il concerto di stasera a Milano l'Orchestra Italiana supera le 1.500 date. E quando ne fai così tante non è solo per suonare o esibirti. Noi vogliamo dimostrare che la canzone italiana ha una grande tradizione, che va dal melodramma e giunge fino a Simone Cristicchi, passando per Carosone, Murolo, se vogliamo parlare di Napoli, ma che conta nelle sue file grandi come Battisti o Dalla. Musica che si merita il mondo».

Con l'Orchestra siete stati in ogni angolo del pianeta.

«Sì. E non mi dispiace questo ruolo di ambasciatore».

Ma alla sua età dove trova l'energia fisica per fare il globetrotter della musica?

«Da parte di madre faccio Cafiero: discendiamo da quel Carlo, rivoluzionario anarchico, che un po' di rumore l'ha fatto. Fuori dal coro, come diceva Indro Montanelli».

Pugliese di nascita, napoletano d'adozione: che gusto le dà salire a Milano?

«Questa città mi ha accolto nel 1969 e mi ha dato una grande occasione, il mio primo programma in Rai: era Speciale per voi, di cui ogni tanto si vedono ancora immagini di repertorio, quando presento Lucio Battisti esordiente. E poi Milano per me significa Mariangela Melato, con cui ho avuto una sintonia straordinaria. Pensi che cercava di insegnarmi il milanese...».

L'Orchestra Italiana declina in chiave swing classici della musica napoletana: Napoli e America, due suoi grandi amori. Jean-François Revel diceva che l'anti-americanismo è una malattia dell'infanzia...

«Condivido. Io sono sempre stato filo-americano, con senso critico certo. Ma mi ritrovo perfettamente nella loro visione, soprattutto in quel diritto alla felicità sancito nella loro Costituzione».

Quando capì che la musica avrebbe segnato tutta la sua vita?

«Nel 1964, quando la Rai mi assunse come programmatore di musica leggera. Era la mia ultima chance: mio padre mi aveva detto: o ce la fai a questo giro, o vai a fare l'avvocato».

Le piace la musica che gira oggi per radio?

«Mah.

Penso che rap e trap non rimarranno come fecero lo swing, il rock'n'roll e il beat. Il potere rivoluzionario che c'era in quei ritmi e in quelle armonie non lo vedo in queste nuove tendenze. E poi quella era musica suonata davvero».

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