Il sovrintendente Alexander Pereira non si perde uno spettacolo della Scala. Assiste anche alla replica più remota, salvo che sia in viaggio per scoprire e ingaggiare artisti. Lo vedi lì, nel palco della sovrintendenza, che freme e canticchia, con un occhio alla buca d'orchestra e l'altro ai cantanti. Quel palco sarà vuoto durante l'allestimento dell'opera di Richard Strauss Ariadne auf Naxos («Arianna a Nasso») in scena dal 23 aprile al 22 giugno. Pereira figura nel cast, sarà il gelido Maggiordomo, un ruolo parlato. Come si sente a pochi giorni dal debutto scaligero? Mentre conversiamo, in palcoscenico stanno per arrivare roulotte, cellofanate in via Verdi, e si monta la scena di una sala di registrazione con tanto di pannelli fonoassorbenti d'un azzurro che fa tanto design.
Debutta alla Scala, ma conosce bene il personaggio...
«Ho fatto almeno 40 recite di Arianna a Nasso, in due diverse produzioni di Zurigo poi riprese al Covent Garden, a Vienna e al Festival Strauss».
L'ultima volta?
«In dicembre, a Dresda, diretto da Thielemann. Qui sono riuscito a superare la paura. Prima ero sempre terrorizzato. Ora ho la sensazione di essere finalmente entrato nel personaggio. Quando si hanno timori si diventa più veloci, ma il Maggiordomo chiede lentezza. Fu il regista Cesare Lievi a convincermi ad affrontare questo ruolo spiegando che le parole cattive, se pronunciate da un sovrintendente, diventano ancora più forti ed efficaci».
Cosa la innervosisce di più: questo debutto o quello di un nuovo spettacolo scaligero?
«Il livello di tensione delle prime dipende dalla salute e dal grado di preparazione dei cantanti. Se un cantante ha problemi, vado dietro le quinte, gli sto vicino e lo incoraggio fino alla fine. Spesso mi capita di andare nei camerini a tirar fuori cantanti impauriti. Si chiudono anche nella toilette. Li vedi terrorizzati, pallidi...».
Inclusa una tigre come Anna Netrebko (protagonista del prossimo 7 dicembre)?
«Anche Anna ha i suoi momenti di paura. Del resto, sono proprio i grandi artisti ad avvertire più di tutti l'ansia da prestazione che però riescono a commutare in energia e bellezza».
Quali paure sono state fondamentali per la sua crescita professionale?
«Tutte. Di anno in anno, affronti le varie situazioni, aggiungendo un tassello. Non saranno tutti d'accordo, ma come sovrintendete sento di essere migliore rispetto al passato: mi sono liberato dalle cose inutili. Punto dritto alla qualità».
L'Accademia della Scala lavorerà con il ministero arabo per creare un conservatorio a Riyad. E questo, nonostante il no del Cda del teatro ai 15 milioni di donazioni saudite. Quali sono le prospettive per la collaborazione con l'Arabia?
«Siamo concentrati sull'Accademia, sul fatto di portare musica a 600 bambine e bambini arabi. Cerchiamo poi di convincere tanto i Sauditi, che hanno avuto una grande pazienza, quanto gli Italiani che si tratta di un progetto di valore».
Dalle istituzioni arabe ci saremmo aspettati una chiusura totale dopo le tante polemiche.
«Il Principe ha creduto nell'onestà del progetto pensato per loro».
Prima del caso arabo, le era mai capitato che fosse lo sponsor a proporsi anziché essere lei a chiedere?
«Effettivamente questo non ha precedenti per me. Spendo metà del mio tempo cercando soldi. Lavoro 18 ore al giorno e metà del tempo è dedicato a questo. Tutti mi chiedono di trovare soldi».
E lei ha trovato 46 milioni: una quota che supera le sovvenzioni da Stato, Regione e Comune
«I teatri europei che più o meno hanno il nostro bilancio, penso all'Opera di Vienna, Monaco, Berlino e Zurigo, possono contare su un contributo pubblico doppio rispetto a quello della Scala. Questa è la mia sfida: far vivere il teatro più famoso al mondo con 40 milioni di fondi pubblici».
Al prossimo Cda si dovrebbe decidere se rinnovare o no il Suo contratto (scade nel febbraio 2020). È fiducioso?
«Al prossimo Cda si parlerà del bilancio. Per il punto sovrintendenza si dovrebbe deliberare non prima delle vacanze estive».
Con che animo lavora all'idea che fra dieci mesi potrebbe non esser più sovrintendente?
«Continuo a lavorare come sempre pensando ai prossimi quattro anni perché se vuoi i grandi artisti, li devi chiedere con largo anticipo. Se mi fossi fermato al 2020 avrei creato un disastro per la Scala».
Quindi le stagioni sono fatte fino al 2022. Corretto?
«Ci sono alcune cose anche per il 2023».
Lei voleva fare il basso, invece si ritrovò in Olivetti per 12 anni, e poi manager musicale a Vienna. La storia è poi nota. Ci può raccontare gli inizi?
«Per fare il cantante è questa la proporzione: 10% di talento e 90% di lavoro. Solo dopo aver lavorato per quel 90% ti rendi conto se c'è quel 10%».
Così, dopo il momento della verità, eccola in Olivetti.
«Lì ebbi come capo Franco Tatò. Purché conducessi al meglio la mia professione, lui mi consentiva di organizzare concerti a Francoforte, in cui capitava che cantassi pure io, sfruttando alcuni spazi aziendali. Poi mi chiamarono da Vienna. L'Italia mi ha dato molto, e io voglio restituire a questo Paese quanto ho ricevuto».
Ma prima dell'esperienza Olivetti, cosa era per lei l'Italia?
«Mia mamma aveva una casa a Lussino, nell'epoca in cui l'isola non era italiana. Adorava l'Italia. Ne era innamorata».
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