Dall'alto lui buttava lo sguardo sul cortile interno, perfettamente quadrato, ornato lateralmente da un filare di piccoli arbusti inframmezzati da pianticelle un tempo domestiche, poi svasate e riposte in una spanna di magra terra trattenuta da un cordolo di sassi. La flora più fortunata alloggiava in vasi dal multiforme stile e varia geometria. Alcune specie mostravano l'età nelle dimensioni infantili, altre assai senili nella buffa chioma a ombrello sovrastante un esile stelo che negli anni si era allungato mostrando i segni di una strana e feroce potatura. Forniva sobrio decoro condominiale la multicolore porta vetrata di spessa consistenza che giocando con i lampioni sferici dell'ingresso e del cortile stesso produceva un certo spettacolare effetto al passaggio degli inquilini o nelle serate di pioggia quando la sua policromia si decomponeva nell'acqua perennemente in lotta con l'unico tombino.
CORTILE METAFISICO
Quel quadrato poteva ricordare, con un po' di fantasia e di autosuggestione, una piazzetta metafisica senza essere a Ferrara. Era come un quadro ora steso ora sbieco, qualcosa di piacevolmente inquietante, apparentemente immobile. Talvolta, di notte, si udiva un frullo d'ali davvero musicale e proprio angelico che annunciava la consegna di un piccolo dono. Pare che lo svolazzante e diafano stormo fosse richiamato dall'inquilino del piano rialzato. O meglio, dalla musica che lui ascoltava fumando affacciato e respirando in aggiunta una nuvola di incenso bizantino. Poteva scorgere nel quadrato il cronometrico andirivieni delle solite avvenenti signorine variamente accompagnate. Oppure, aprire il portone ai poliziotti, anche quattro o cinque, che scortavano un'anziana signora che divertita si era fatta, e lo faceva spesso, un giretto in vestaglia e babbucce smarrendosi dalle parti di Corso Indipendenza. E da lì si muoveva l'inquilino convinto ormai che quel quadrato fosse parte integrale del suo appartamento ma con un dubbio. Il cortile era entrato nella sua casa o viceversa? Si trattava di un'osmosi indefinibile ma percepita chiaramente.
Al piacere di tante visioni si sovrapponeva un fastidio che transitava sotto pelle per insinuarsi prima negli arti e poi alla convergenza delle arcate sopracciliari. Sintomi che si tramutavano in dolore al quale subentrava un piacevole rilassamento, quasi lucida euforia. Forse gli dava alla testa la sensazione che le emozioni vissute gli fuggissero di mano, incontrollate, misteriose nella loro provenienza.
LA CASA-EREMO
Eppure si sentiva così concreto, anche un concentrato di razionalità o di campagnolo buon senso. Eppure, se vedeva un fiammifero pensava ad un vulcano, se vedeva un bimbo si sforzava di immaginarselo da vecchio e questo quand'era bimbo. Il Duomo di Milano si trasmutava in tempio greco, i merli dal becco giallo in trionfante Pegaso. Quanto vedeva se lo portava in casa e poi se lo guardava nel cortile diventato specchio. Divorava questo cibo magicamente reale con gli occhi e con la mente, a bocconi lenti, servendoselo su un piatto quadrato, nel quale ci poteva stare l'anchilosato Argo al guinzaglio della signora pettoruta o la ragazza che stava difendendo il posto per l'imminente parcheggio della mamma e che si ritrovò abbracciata al cofano di un maleducato intruso.
Ormai la casa non bastava, forse nemmeno il cortile. La densità era paragonabile ad un barattolo di malto liquido, al piumaggio fine di un volatile, all'emozione di Isotta sul cuore fermo di Tristano. Quei quarantaquattro metri quadrati (catastali) imbottiti di dischi, libri, ricordi ed emozioni erano come un budello tanto teso che l'avrebbe volentieri sgonfiato, un'operazione necessariamente periodica, con l'ago della colorata pop scultura di Piazza Cadorna. Aveva anche il filo a portata di mano o di piedi. Infatti, l'unico modo per dissipare la tensione consisteva in una particolare passeggiata. Solo quella, con rituali precisi.
Sì, il viaggio era benefico ma inevitabilmente avrebbe ricominciato a riempire la casa, dalla quale se ne usciva ovviamente già imbottito di incenso e musica. Quasi fosse un cavaliere puntava al "percorso netto", ovvero percorrere l'itinerario senza incontrare scocciatori. Era il momento di avvolgersi in un tabarro nero a ruota che si era fatto confezionare in una padana sartoria ecclesiastica. All'altezza della scapola destra aveva ricamato con filo rosso una croce sghemba evocando la foglia che fatalmente si era posata su Sigfrido durante la doccia integrale fatta con il sangue del draghetto, poco prima ucciso, che gli avrebbe garantito l'invulnerabilità. Aveva visto questa scena da bambino in un film, restando sconvolto per la morte dell'eroe trafitto dalla lancia proprio in quel punto. Completavano l'abbigliamento l'abito scuro, spesso di velluto, la camicia monocroma e sgargiante, e la spilla che infilzava una farfalla piatta ricamata a mano. Tutto sotto il tabarro dal quale spuntavano solo le scarpe scamosciate nere o blu e il pallido sembiante che conferiva all'inquilino un'aria decisamente fratesca, impressione confortata dal taglio di capelli assai scodellato.
Chiuso l'uscio, infilato un paio di guanti gialli, il quadrato apriva un lato verso Corso Indipendenza. Che cosa bisognava vedere, toccare, sentire? Quali erano i rimedi passeggeri per curare quel fastidioso e misterioso gonfiore intellettuale? Cercava qualcosa di bello o che gli ricordasse qualcuno. Per questo motivo si era messo a rubare lapidi commemorative. Quelle che stanno abbastanza in alto, quanto basta per non scorgerle se uno se ne va di fretta e furia. Magari avrebbe voluto prendersene una e a parte il peso, sotto il tabarro poteva occultarla. Non gli restava che rubarle con gli occhi, memorizzarle per l'ennesima volta, farci un pensierino, commuovendosi.
CERI E LAPIDI
Attraversata la piazza dove campeggia uno statuario San Francesco, puntava dritto verso Brera e precisamente alla chiesa di San Marco. Si era particolarmente affezionato ad un presepe portato a casa, previa offerta, in una riproduzione su poster sponsorizzata da un consorzio riciclatore di carta ritagliando con cura le figure dipinte dal Landonio. Ai ceri già accesi ne aggiungeva altri immaginando quasi di trovarsi ad Avignone in altre navate e che stesse per spuntare nella penombra una Laura. Magari, pensava, c'era stato anche Petrarca negli otto anni di soggiorno milanese. Di sicuro avrà ammirato quel luogo sacro Mozart che soggiornò tre mesi nella canonica come ricorda una lapide e Giuseppe Verdi che diresse lì per la prima volta la sua Messa da requiem. In questo stordimento di dipinti, sarcofagi ed evocazioni, il tabarro si prestava a divertenti equivoci che tuttavia indispettivano l'inquilino distogliendolo dal suo confuso raccoglimento. "Padre, a che ora si celebra la messa?". "Padre, si può parcheggiare senza il gratta e sosta?". "Padre, mi può dare informazioni sulla storia di questa chiesa?". "Reverendo, Buon Natale!".
Sulla via del ritorno, dopo uno sguardo, nel cortile dell'Accademia di Brera, alla statua napoleonica del Canova incacata dai piccioni, rendeva visita nei pressi alle lapidi formato "qui visse e/o dimorò" del Parini, del Monti e del Manzoni. Mancava ancora un'entrata, sempre nelle vicinanze, in una chiesa copto egiziana e in una russo-ortodossa, entrambe gradite per l'abbondante uso di incenso. Tutto un girare intorno con il punto d'arrivo al suo quadrato. Ormai, il freddo si faceva sentire, almeno alla testa. Il calore mentale si dissipava condensandosi nel muco che fluiva ogni tanto dentro le narici. Gli sembrava una liberazione, forse si sentiva alleggerito. Ma quale peso avrebbe portato a casa? Stavolta, non riusciva a ritrovare la strada e i punti di riferimento che conosceva a menadito: il nome inciso sulla panchina dei giardini, la dichiarazione d'amore fatta su un muro con lo spray, la suoneria con gli ottoni tirata a lucido, il cartello con simpatici errori ortografici che annuncia il trasferimento di un negozio. La città si stava trasformando in qualcos'altro. Le facciate mostravano lo stesso color ghiaccio, auto e persone sembravano ingessate e bloccate nel loro ultimo movimento. Accanto al girasole c'era il bucaneve. "Ma in che posto sto?", si chiedeva, "Che sta succedendo?", "Che stagione è?".
PALLE DI NEVE
Nel frattempo, pronunciava disordinatamente nomi di persona. Forse, quelli di un amico al quale chiedere aiuto e spiegazione dell'accaduto. D'un tratto, lui e la città ritornarono in sé come se nulla fosse. Il cingalese sempre ubriaco si era appisolato sulla panchina, ai tavoli dei bar le ganasce riprendevano il rito dell'aperitivo (era giorno o sera?). L'inquilino si sentiva bene, a pochi passi da casa, mancava solo l'occhiatina alla lapide che ricordava la "sosta" di Boccioni. Dopo tanto passato un futurista non guastava. La camminata volgeva al termine e a fil di muro girò le spalle. Nello stesso istante, si udì un sibilo breve e suo modo musicale. E poi un tonfo leggero e attutito ancor più dalla ruota di tabarro che avvolgeva il suo corpo.
Il termometro segnava 34 gradi, una ragazza con pinocchietto e piercing all'ombellico era atterrita, e c'era un gran via vai di domande non sul da farsi ma su alcune palle di carta che sembravano strappate da un libro e che si allontanavano dal tabarro saltellando qua e là. Una signora esclamò lapidaria: "Quant'è marmoreo!". Qualcuno si interrogava sulla dinamica dell'evento, senza cavare un ragno dal tabarro. Nessuno si era accorto di una piccola chiazza d'acqua, forse scambiata con il bisognino di un barboncino bianco che non smetteva di abbaiare. Eppure era lì, nella sua modesta entità, prossima a evaporare ma ancora evidente, per poco. Prima di scomparire per sempre, era una palla di neve lanciata sulla scapola dell'inquilino.
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