L'arte «degenerata» di Beckmann l'esule di Germania

Al Museo di Mendrisio una bella antologica ricorda un maestro del '900 tra le due guerre

Mimmo di Marzio

Ci vogliono coraggio, pazienza e dedizione per accendere i riflettori su un artista del Novecento poco pubblicato a sud dell'Europa e figura scomoda nel variegato scenario delle avanguardie. Tale è Max Beckmann, tedesco di Lipsia e annoverato nella tormentata corrente della «Neue Sachlichkeit», la cosiddetta Nuova Oggettività sviluppatasi in Germania tra le due guerre. Anche se lui, diversamente dai più celebrati e politicizzati George Grosz e Otto Dix, rifiutò in vita qualsiasi etichetta; più catalogabile, anche per la sua scelta di vita da viaggiatore-esule, come «cane sciolto» dell'arte. Oggi, a dargli ampio e inedito spazio (l'unica mostra significativa in Italia si tenne nel 1996 alla Galleria d'Arte Moderna di Roma), è il Museo d'arte di Mendrisio, piccola ma valente realtà ticinese diretta da Simone Soldini. In mostra, fino al 27 gennaio, un centinaio di opere provenienti da collezioni private ma realizzata soprattutto grazie il prezioso contributo degli eredi Beckmann e con la curatela di Siegfried Gohr, il più autorevole studioso dell'artista. Il percorso, ben disegnato cronologicamente, mette in luce la ricerca e le influenze subite dal pittore tedesco, attraverso oli ma soprattutto grafiche a puntasecca, tecnica privilegiata dalla Nuova Oggettività per raccontare con apparente distacco le angosce, le miserie e i vizi della società borghese durante la fragile Repubblica di Weimar. Una generazione maledetta quella tratteggiata da artisti che vissero in prima persona gli orrori del fronte occidentale e subito dopo l'umiliazione della sconfitta di una Germania piegata dalle sanzioni. Bekmann, che prima di arruolarsi come aveva aderito alla Secessione antiaccademica di Berlino e aveva già assaggiato l'ebbrezza della celebrità, uscì dalla guerra psicologicamente prostrato, tanto da cambiare completamente vita oltre che stile pittorico. I quattordici anni intensi che separarono quella cesura fino alla drammatica etichetta di «arte degenerata» conferita dal nazismo, furono caratterizzati da un girovagare per l'Europa e tra gli stili, influenzato soprattutto dal periodo parigino. Ma il suo Dna espressionista e tardogotico, come pure e il suo sguardo sempre più cupo e malinconico sulla realtà, toccarono forse le note più acute nell'intensa produzione grafica, iniziata già nel 1912 grazie al sodalizio con gli editori Ber Neumann e Reinhard Piper. Il suo tratto forte e deciso anche nella pittura, unito al rigidismo plastico delle forme, divennero il segno distintivo con cui l'artista raccontò l'«oggettività» di quegli anni cupi. Una cronaca tuttavia meno cruda e sarcastica rispetto a contemporanei come Dix e Grosz, ma sempre fortemente allegorica e in taluni casi persino mitologica.

La mostra di Mendrisio, che offre anche un pregevole corpus di paesaggi e nature morte (oltre ai celebri autoritratti), sottolinea l'unicità di un grande artista del '900 che, aldilà delle correnti, seppe vivere l'arte soprattutto nella sua forza più intimista, condizionata da un nomadismo che lo portò sempre più spesso anche in Italia; lontano dallo Sturm und Drang berlinese e magicamente attratto dal fascino di una metafisica che finì per influenzare (suo malgrado) anche i suoi quadri.

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