L'oasi di piazza Liberty museo della città che fu

Nulla è originale, ma richiama edifici dell'800 poi abbattuti. Cinema, caffè e negozi: da Peter Sport a Ferrari, ora Nespresso

L'oasi di piazza Liberty museo della città che fu

Il senso di Ulrico per le lettere era iniziato presto. Nonostante mamma e papà facessero i contadini in Turgovia e l'avessero allevato con educazione protestante. Quando capirono che non ne avrebbero tirato fuori un agricoltore, lo spedirono a Winterthur a fare il farmacista. Quel ragazzo però non voleva saperne. Amava i libri e la polvere che sapeva di antico. Alla morte del padre si trovò in tasca 16mila lire e un'impresa rurale, ma prese carta e penna e scrisse una lettera. Era Sant'Ambrogio. Era il 1870.

Il tedesco lo conosceva bene. E mandò poche righe ai viennesi Tendler e Schaefer, che gestivano la libreria Laengner in galleria De Cristoforis. Stampavano nella legatoria del negozio. E vendevano. Lui voleva comprare. Si firmò, Ulrico Hoepli. Il 31 dicembre arrivò in Italia. Piantò radici in contrada de veder , detta così per luci e vetrine.

L'aveva voluta un imprenditore edile, Luigi De Cristoforis. Ed era una citazione urbanistica. Un passage alla parigina ai piedi del Duomo. Partiva press'a poco a metà di corso Vittorio Emanuele, che all'epoca era Corsia dei servi perché il re non era ancora re, ma un bambino uguale agli altri anche se un po' più uguale di tutti gli altri. Iniziava lì, dove sta tuttora el sciur Carera , l'antico romano in toga che sorvegliava l'ingresso dell'Astra, un ex cinema che oggi è Zara. Era il Pasquino milanese e l'avevano ribattezzato con un cognome che mai ha avuto. Dalla prima parola dell'iscrizione latina che lo accompagna. E la storpiatura sembrava provvidenziale. Carere debet omni vitio qui in alterum paratus est. Come a dire che deve essere privo di colpa chi è agile a parlare contro gli altri...

Ebbene, la galleria de veder - l'unica che Milano aveva, perché il Mengoni non era ancora al lavoro - si staccava proprio lì. Costeggiava il fianco della chiesa di San Carlo e si spingeva verso Montenapoleone. Oggi ha una pianta diversa e sfocia in piazza Liberty. Il luogo-non luogo per eccellenza all'ombra della Madonnina. Nulla di ciò che vi si trova è originale. Talvolta è beffardo. O un segno dei tempi. Da Petersport alla Ferrari il passo è lungo. Ora George Clooney prepara caffè Nespresso.

Il passaggio, dedicato all'ingegnere che lo volle, è irrispettosamente cornuto, ma rispecchia la biforcazione originaria. Ed esce in due angoli adiacenti della piazzetta. Tra di essi sta di vedetta un palazzo austero. Di vetrate. A testimoniare che un tempo, là era tutt de veder . Finestre sull'alba in stile liberty.

Il 17 settembre 1831 era sabato. Ma in quegli anni il fine settimana non era un mito. E si lavorava. Quella mattina arrivarono i primi operai. Pale. Vanghe. Carri. E tanto olio di gomito. Presto il cantiere cominciò a brulicare di magùtt come formichine. Manovali e muratori venivano dai borghi fuori le mura. Sputavano sangue in nome di un osso buco. Senza lamentarsi. E passavano le dieci ore, tra afa e umidi rigori d'autunno. Poi d'inverno. In un anno la galleria de veder era in piedi.

De Cristoforis aveva 32 anni quando infilò banconote a mazzi nelle tasche del duca Serbelloni per acquistare il palazzo cinquecentesco, che avrebbe lasciato il posto al primo passage italiano della storia dei consumi. Ufficialmente era un regalo alla moglie. In realtà fu un investimento e l'astuto ingegnere affidò i lavori all'architetto Andrea Pizzala. Un giovane che doveva farsi un nome, se voleva sopravvivere. E se lo fece.

Le augurarono di campar cent'anni, in quel brindisi. Era il 29 settembre del '32. E la contrada de veder obbedì. Fu presa a picconate nel 1935. L'avevano comprata le assicurazioni torinesi e, su quelle macerie, spuntò il palazzo delle Toro. Con i detriti si portarono via il caffè Gnocchi e litri di bollicine che raccontavano storie di entraîneuse e uomini dal baffo accigliato. Fogli da cento che passavano di mano. Incontri clandestini. Chiacchiere prestigiose. E parole ribelli. Carlo Righetti era di casa, là. Ma così non lo conosceva nessuno. Eppure, nella sua Milano, visse la bellezza di 78 anni. Si era ribattezzato da solo. Prese nome e cognome e li stropicciò. Ne venne fuori Cletto Arrighi e dietro quella nuova anagrafe si nascondeva uno scapigliato. Un contestatore. Uno che partecipò alle Cinque giornate e alla prima guerra d'Indipendenza. Uno che aiutò i Savoia e combatté per loro. E alle soglie dei quaranta si ritrovò in parlamento, nella sinistra mazziniana e garibaldina. Quando non bazzicava le osterie del Ticinese, l'Arrighi era lì. Allo Gnocchi. A scrivere di ragazzi che ce l'avevano con il Romanticismo, sdolcinato e languido. Le tradizioni borghesi. Il buonsenso che sapeva di vecchio. Il provincialismo risorgimentale. E protestavano con il pennello. Come Mosè Bianchi e Tranquillo Cremona. Il pentagramma. Come Boito e Ponchielli. E naturalmente con la penna. Come Tarchetti e Dossi. Scapigliati anche loro. Idealizzarono le malattie. E Milano.

Quando el sciur Cattaneo - un tale che nulla ha a che fare con Carlo - trasformò il palazzo dietro casa in un café chantant che era divenuto un locale per signorine allegre e non sempre raccomandabili, intervenne l'Arrighi. Nel 1870 affittò il Padiglione Cattaneo - lì dove oggi c'è il cinema Apollo - e da teatrino lo trasformò in teatro. Investì un'inattesa e ricca eredità. Ben 35mila lire, decine di milioni di oggi. Ci infilò Meneghino e attori con un sogno in testa e un nome di carta straccia. Tra questi un ragazzo di talento, Edoardo Ferravilla, che al teatro Milanese lanciò el Tecoppa , un Fantozzi ante litteram . Debole coi forti e forte coi deboli. Un bicchiere di grappa sempre in mano e poco amico del lavoro. Un bischero, avrebbero detto in riva all'Arno, mentre sotto la Madonnina gli auguravano soltanto che Dio te coppa . E da lì il nome.

Ma anche il Milanese, inteso come teatro, finì in malora. Fece in tempo a tenere a battesimo l'invenzione dei Lumiére poi, nel 1902, fu demolito e su quelle macerie sorse un lussuoso albergo. Il Corso. Ma tracce del vecchio palcoscenico non sparirono. La chiamarono Trianon, quella bomboniera interna al Corso. E a suo modo fu una culla. Dopo gli scapigliati toccò ai futuristi. Marinetti, come Mussolini, erano il Filippo e il Benito. Si cantava e si suonava un po' di tutto. Perfino un festival della canzone napoletana. Fu allora che Giovanni D'Anzi se la prese. Partecipò e intonò la sua «bambina». La Madônina . Era il 1935 e la guerra avrebbe mutilato il Corso e il Trianon. Non restò che abbatterlo. Ma, come la fenice, rinacque dalle sue ceneri. E oggi è lì, in piazza Liberty, parzialmente deturpato da 14 finestre intruse. Traccia del passato. E beffardo di suo. Trianon era il nome della villa fatta costruire dal re Sole a Versailles. Lì fu firmato un patto che prese quel nome e chiuse la Grande guerra. Era il 4 giugno 1920. Sanciva la dissoluzione dell'impero austro-ungarico e la fine di quella schiatta di re. Oggi, nel redivivo Trianon, sta il consolato austriaco. Ignaro di tutto. Questione di nemesi. Ma questa è un'altra storia. Non più di Milano.

Costata un milione di lire, la «contrada de veder» era nota anche come «galleria vecia», essendo stata la prima ad essere aperta. Vi lavorarono 450 operai e ogni giorno 200 carri facevano la spola per trasportarvi i 45mila mattoni necessari.

Ospitava 230 locali tra cui una trattoria, un albergo, 60 camerini e 70 botteghe larghe 4 metri e profonde dai 5 ai 15. Aveva sale di lettura dei giornali, negozi di tessuti, abiti, cappelli, giochi e libri. Oggi è ricostruita e visitabile nei sotterranei della libreria Hoepli (nella foto) in via Hoepli 5.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica