È l'ora del «Falstaff» Verdi versione british

Il direttore Daniele Gatti al Piermarini col classico firmato da Robert Carsen

Con Falstaff di Giuseppe Verdi, in scena da oggi al 4 novembre, si inaugura il mese scaligero del direttore d'orchestra Daniele Gatti. Che alla Scala firma l'opera verdiana, quindi quattro concerti con la Filarmonica della Scala. Si parte il 18, agli Arcimboldi, con un programma franco-americano: dall'impressionismo francese di Ravel a Broadway, un appuntamento del ciclo Discovery, cento biglietto gratuiti per gli under25. Mentre il 5, 7, 10 novembre sarà alla Scala alla testa della Filarmonica per la stagione sinfonica del teatro, due gli autori proposti: Mozart e Sostakovic. Così, dopo l'edizione del 2013 con Daniel Harding nella buca dell'orchestra, torna a Milano l'opera nata al Covent Garden di Londra nel 2012, per la regia di Robert Carsen. Questa volta, ritroviamo Gatti, colui che tenne a battesimo la produzione londinese che poi salpò per New York (direttore Levine), Amsterdam (direttore Gatti) e Toronto (direttore Debus). È stato dunque prescelto un classico scaligero, Falstaff, come titolo di chiusura del semestre per Expo. E come interprete, Gatti: nella «famiglia Scala» date le innumerevoli presenze tra cui spiccano due prime della Scala, Don Carlo del 2008 e La Traviata del 2013. Per il Falstaff 2015, nel ruolo del titolo avremo il baritono Nicola Alaimo, già interprete di Sir John al Metropolitan nel dicembre 2013 e applaudito alla Scala nel Don Pasquale di Donizetti nel 2012 e nel Comte Ory di Rossini (Raimbaud) nel 2014. Alice sarà il soprano Eva Mei, Ford il baritono Massimo Cavalletti, già Ford in questo allestimento a Milano e ad Amsterdam. «È una delle opere che ho diretto di più negli ultimi 15 anni. E' nel mio sangue, ma ammetto che dirigerla qui, nel teatro dove venne battezzata, è un qualcosa di speciale», ha spiegato Gatti. Vedremo un Falstaff molto british. Si parte dalla tinta prevalente, il colore della quercia. Lo si ambienta, come vuole il libretto, in Inghilterra, seppure Carsen abbia spostato la vicenda negli anni Cinquanta, in un'epoca in cui il Paese non è più la stella di prima grandezza dei secoli precedenti, semmai nel cono d'ombra degli States. Gli aristocratici, vedi Sir John Falstaff, vivono il loro autunno, mentre la borghesia, incarnata da Ford, esce allo scoperto: una borghesia un po' gretta, sprovvista del savoir faire di Falstaff, per dire. Che è ironico, gran seduttore, accentratore, ricco di fascino, emblema di un'aristocrazia decaduta. Falstaff «vive in albergo e non paga il conto», per dirla con Carsen. In questa produzione prevale l'idea della festa, si mangia e beve a volontà, si strizza l'occhio anche alla cucina americana quando la vicenda si sposta nell'abitazione del borghese Ford. Ma attenzione. «Non sarà un Falstaff spumeggiante» semmai «cesellato», rimarca Gatti. E ancora, «se dovessi associare quest'opera a un momento della giornata e alla vita di una persona non penserei alla sera, ma al tramonto. Al momento in cui ci si rende conto di avere ancora del tempo davanti, ma non più così tanto». Big party questo Falstaff.

Ma è stato anche un «big deal», per usare le parole di Carsen che così alludeva al grande impegno di chi subentra al classico Falstaff scaligero, cioè quelloa firma di Giorgio Strehler «per il quale ho un'ammirazione senza limiti» (Carsen). Pure Gatti ha confessato di aver impresso nella sua memoria lo storico «Falstaff» diretto da Maazel con la regia di Strehler, che l'ambientava nella bassa padana.

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