Mafia a Buccinasco: "Resistenza civica fu debole"

Mafia a Buccinasco: "Resistenza civica fu debole"

Un «humus di assai affievolita resistenza civica» ha permesso che a Buccinasco comandassero i clan. C'è voluto un processo durato più di dieci anni, un andirivieni interminabile di condanne e assoluzioni, ma ora la parola fine è arrivata: ed è una fine che condanna non solo gli eredi del clan Papalia (nella foto, Rocco Papalia) ma condanna una intera realtà sociale, dove anche l'imprenditoria pulita si è arresa alle leggi della criminalità organizzata. E a volte ne ha pure tratto vantaggio.

Ieri la seconda penale della Cassazione ha depositato le motivazioni che rendono definitive le condanne di Salvatore Barbaro e Mario Miceli, calabresi della Locride da decenni trapiantati a Buccinasco, ma anche di Maurizio Luraghi, milanese di Rho, tutti accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso. Sono le condanne che per due volte la Cassazione aveva annullato, nel 2012 e poi di nuovo nel 2015: per essere considerato mafioso, per essere accusato di impiegare metodi mafiosi, non basta portare un cognome «pesante»: «Occorre che l'intimidazione si traduca in atti specifici», avevano scritto i giudici della Suprema Corte, rimandando

nuovamente gli atti a Milano. E qui, cocciutamente, la Corte d'appello aveva condannato per la terza volta gli imputati: nove anni a Barbaro, sei a Miceli, quattro a Luraghi.

Per la terza volta, gli imputati hanno presentato ricorso in Cassazione. Ma stavolta il ricorso è stato respinto. Le nuove motivazioni della Corte d'appello milanese, dice la sentenza di ieri, non fanno una piega. Contro Salvatore Barbaro non c'è solo il fatto di essere genero di Rocco Papalia, il boss più vecchio e celebre della 'ndrangheta del sud Milano. «L'associazione mafiosa non si è giovata tout court della fama criminale della cosca Papalia ma ne ha raccolto l'eredità, confermandone le metodiche nella gestione del settore del movimento terra».

La sentenza di ieri ripercorre passo per passo le tappe che dimostrano come i metodi degli «eredi» fossero gli stessi dei predecessori; racconta come al sindaco dell'epoca, Maurizio Carbonera, che aveva rifiutato un appalto al clan, fosse stata bruciata due volte l'auto, e poi recapitato un proiettile; cita l'incredibile episodio del dirigente dei lavori pubblici del Comune, che appena nominato chiede al sindaco «di essere esonerato da alcune pratiche relative a cantieri in cui erano coinvolte le imprese dei Barbaro perché voleva stare lontano da gente così, che intimorivano»; parla della «diffusa soggezione» che si respirava a Buccinasco, e della «percepibile reticenza» dei testimoni chiamati a dare la loro versione.

Insomma, se «lo Spietato» - come un film che sta per uscire ha ribattezzato il pentito Saverio Morabito - trent'anni fa descriveva Buccinasco come «un'altra Platì», evidentemente secondo la Cassazione le cose non sono cambiate molto. I «vecchi» continuano a comandare dal carcere, fornendo «indirizzo anche solo morale»; quelli fuori proseguono nell'opera. Ma le parole più severe le motivazioni le riservano agli imprenditori della «zona grigia», i bravi lombardi che trovano comodo e conveniente fare affari con i clan.

Maurizio Luraghi, dice la Cassazione, è un esempio preclaro di tale categoria.

Un «imprenditore colluso», «perfettamente consapevole che il percorso imprenditoriale dei Barbaro era costellato di attentati, minacce e intimidazioni», pronto a conseguire «appalti sfruttando la forza di intimidazione del sodalizio».

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