"Mani pulite ci travolse. E i clienti confessavano per non finire in cella"

L'avvocato Ivano Chiesa, dello staff di Corso Bovio, ricorda come trent'anni fa l'inchiesta cambiò il Paese

Da un fermo immagine video La7
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«Era un'epoca elettrizzante, avevi la sensazione di fare parte di un fenomeno che stava cambiando la storia del Paese; e di essere dentro la cronaca, di conoscere i fatti prima che accadessero. Mi capitava di tornare a casa e dire a mia moglie: accendi il telegiornale, vediamo se lo sanno già».

Profluvi di parole, ondate di retorica postuma. Il trentennale dell'operazione Mani Pulite, che cade oggi, ha fornito ampio materiale di riflessione in libri e articoli. Ma quasi nessuno si è preoccupato di andare a raccontare, con la franchezza consentita dal tempo, le storie e le dinamiche reali del quarto piano del palazzo di Giustizia milanese in quei mesi ruggenti. Ivano Chiesa («non parente di Mario», precisa) oggi è un avvocato di grande impatto. Nel 1992 era uno dei giovani dello staff di Corso Bovio, principe del Foro e avvocato di innumerevoli inquisiti.

Quando capì che stava esplodendo qualcosa?

«Ricordo bene il giorno dell'arresto di Chiesa, anche perchè lo avevo visto uno o due anni prima nello studio di Bovio. Ma lì per lì non ci diedi grande peso. Nessuno immaginava quello che sarebbe accaduto».

E invece?

«Invece nel giro di due mesi venimmo travolti come studio legale da una ondata impressionante, una cosa mai vista prima. Arrivavano clienti in continuazione, si era creato un meccanismo di arresti su arresti, ogni giorno c'erano retate e a volte più volte al giorno. La processione continuò per mesi, in estate eravamo nel pieno del macello al punto che in agosto appena arrivato al mare venni chiamato da Bovio: torna indietro».

Cosa vi chiedevano i clienti?

«Sempre la stessa cosa: di poter andare da Di Pietro per raccontare tutto in modo da non essere arrestati. Una sera alle nove mentre uscivo dal lavoro me ne trovai davanti uno che voleva un appuntamento. Gli dissi di tornare domani. E lui: domani è tardi, potrei essere già dentro».

Cosa li spingeva a correre a confessare? La paura o il pentimento?

«In primis la paura. Negli imprenditori c'era anche la incredulità, ma come, ho pagato e devo anche andare in galera?. E soprattutto c'era la preoccupazione concreta, ho cinquecento dipendenti, devo pensare alle loro famiglie, facciamo fuori questa storia e buona notte. Loro erano l'anello debole del sistema perchè avevano molto da perderci. Di Pietro lo capì perfettamente».

E voi avvocati cosa facevate?

«Ti facevi spiegare bene la situazione. Se capivi che l'arresto era inevitabile e c'era la volontà di confessare andavi da Di Pietro a chiedere appuntamento. La mattina dopo eri davanti a lui col tuo assistito. Lui ti accoglieva, ti ascoltava e verificava tutto in diretta perchè aveva non solo una capacità di lavoro enorme ma una memoria prodigiosa. L'indagato gli diceva una cosa e lui lo fermava, andava a ripescare un verbale magari di sei mesi prima e gli contestava: eh no, qui le cose stanno diversamente».

Gli avvocati milanesi si trasformarono in accompagnatori? Abiurarono al loro dovere professionale?

«É un'accusa che hanno fatto in diversi ma è ingiusta. Bisognava trovarsi nella situazione, col cliente che aveva capito l'antifona e premeva per sbrigare la cosa il prima possibile. Cosa avremmo dovuto dire, no guardi lei deve fare l'eroe?».

É vero che chi finiva a San Vittore usciva solo se parlava?

«Assolutamente sì. Il dottor Davigo arrivò anche a teorizzare la legittimità di quella prassi. Fu una forzatura che poi divenne costante in tutti i processi di tutti i settori e le cui conseguenze paghiamo ancora oggi».

Ma davvero gli imprenditori erano solo vittime delle pretese dei politici?

«Molti lo vivevano come un obbligo, per altri era il modo per ottenere commesse che con una concorrenza libera non avrebbero mai avuto. Il sistema è scoppiato quando hanno iniziato a fare appalti solo per incassare tangenti. Hanno esagerato».

Bovio difendeva anche Silvano Larini, l'uomo delle tangenti di Craxi.

Quando tornò dalla latitanza, Larini oltre a affossare Craxi rovinò anche Claudio Martelli, che era fino allora rimasto incolume ed era l'unica speranza di salvezza del Psi. Perchè lo fece?

«Bisognerebbe chiederlo a lui. O a Bovio che purtroppo non c'è più».

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