«In dieci anni che faccio il comandante qui non è mai successo che un detenuto mi mancasse di rispetto. Hanno capito tutti la mia disponibilità e hanno deciso di affidarsi. La persona che soffre riconosce l'umanità e la sensibilità, non guarda al sesso del suo interlocutore».
Manuela Federico, calabrese di Reggio Calabria, 44 anni, dal 2007 è comandante della polizia penitenziaria e del carcere di San Vittore. Prima donna a ricoprire questo ruolo nel penitenziario milanese, originaria di Reggio Calabria, figlia di un ingegnere e di una professoressa di liceo, Manuela ha frequentato l'Università Cattolica a Milano e si è laureata in giurisprudenza. Sposata con un civilista, pratica da avvocato in un prestigioso studio cittadino, proprio quando aveva tutte le stimmate per diventare una tranquilla professionista e poi mamma borghese (ha una figlia di 4 anni, Sara), la signora ha avuto una sorta di «svolta rock», che ha lasciato a dir poco attonita la sua famiglia e l'ha portata poi fino ai vertici di piazza Filangieri.
Che cos'è successo? Nessuno dei suoi parenti è nelle forze dell'ordine o appartiene all'amministrazione penitenziaria...
«Dopo aver sostenuto l'esame da avvocato ho frequentato un master in diritto penale e sistemi penitenziari. In quell'occasione ho saputo che per la prima volta era uscito un concorso che istituiva il ruolo direttivo della polizia penitenziaria».
Ma che cosa l'ha affascinata di questo lavoro per molti ritenuto durissimo, anche per un uomo?
«Da una parte il pensiero di ricoprire un ruolo istituzionale, di fare qualcosa rappresentando lo Stato; dall'altra quello di lavorare in un contesto difficile, stando a contatto con il disagio, con la possibilità di esprimere la mia sensibilità. All'epoca non immaginavo certo di fare il comandante di una casa circondariale, ma già quando ero ancora una studentessa della Cattolica, mi capitava spesso di passare davanti a San Vittore ed ero sempre affascinata da una realtà così complessa».
Il disagio... Voleva mettersi alla prova come professionista e come essere umano? C'è riuscita, visto che da dodici anni ha il comando di circa 600 unità (550 uomini e 100 donne) ed è anche comandante dei detenuti, un migliaio in tutto.
«Sia con il personale che con i detenuti, pur non transigendo sul lei, posso esprimere la mia personalità, contribuendo alla sicurezza non solo interna ma anche esterna e favorendo percorsi di rieducazione e socializzazione nei quali io credo molto. Papa Francesco, quando è venuto in visita a San Vittore un anno fa, mi ha fatto i complimenti. Pensi: mille detenuti fuori dalle celle davanti a lui e io in mezzo a loro con me accanto... Il Pontefice mi ha confessato che per lui noi donne in questa professione abbiamo una marcia in più rispetto agli uomini. Credo volesse dire che riusciamo a coniugare sensibilità e concretezza».
Qui a San Vittore però, prima di lei, il comandante della polizia penitenziaria è sempre stato un uomo...
«C'erano operatrici ed educatrici ma il comandante era sempre stato un uomo, in un ambiente maschile e maschilista. In generale, nelle carceri c'è sempre stata una tradizione di uomini comandanti con i capelli corti. Si sa, un uomo al comando tende a far sentire peso e centralità, spesso dando molto spazio al proprio individualismo. La donna invece è più disposta a coinvolgere il contesto, a valorizzare, ed è avvolgente anche nell'approccio, compreso quello strategico. Posso dirlo? Secondo me una donna in quest'ottica si rivela più generosa».
In un simile ambiente non saranno state proprio tutte rose e fiori, soprattutto all'inizio.
«Dopo un anno da vicecomandante, il mio superiore è stato promosso e mi sono trovata a doverlo sostituire senza esperienza. Mi ero arruolata nel 2005 e sono diventata comandante nel 2007. L'essere donna, però, mi ha aiutata moltissimo, la componente femminile è stata ed è la mia forza. Prima con Gloria Manzelli, l'ex direttrice, con la quale ci siamo subito comprese e stimate a vicenda, ma anche ora con Giacinto Siciliano, un direttore veramente intelligente, una persona speciale. Mi sono resa conto subito del contesto nel quale avrei dovuto muovermi e, lo ammetto, con il personale all'inizio non è stato facile, così pensavo che anche con i detenuti avrei avuto problemi. E invece no».
Ci racconti.
«San Vittore è una casa circondariale, il che significa che abbiamo un turn over elevatissimo, persone molto diverse tra loro, che stanno qui anche una notte sola. Le criticità di questo posto sono moltissime, lavoriamo sempre in emergenza, le risorse economiche non ci sono, quelle umane scarseggiano e se pensa che un terzo dei nostri detenuti è tossicodipendente e molti altri hanno disturbi psichiatrici può comprendere cosa significhi lavorare qui. Inoltre siamo un carcere con il 65% di extracomunitari, detenuti che provengono da culture per le quali la donna rappresenta poco e nulla. Però questo è un luogo dove si soffre. E chi soffre cerca comprensione, senza alcun tipo di discriminazione. I detenuti mi hanno legittimato anche con il personale che ha potuto vedere come chi era in cella si affidasse a me e come io fossi lì, insieme a tutti loro, a combattere. Sanno che la mia porta è sempre aperta. Ora la situazione si è normalizzata, ma ho assistito a detenuti che salivano sul tetto di San Vittore, che si tagliavano, ingerivano lamette, forchette, pile...».
E lei?
«Non faccio l'eroina, ma ho deciso di fare il comandante da donna esprimendo la mia femminilità, il mio modo di essere.
Ricordo un giorno, aspettavo mia figlia Sara, avevo attorno una decina di agenti pronti a intervenire perché un detenuto si trovava in un grosso stato di agitazione e stava distruggendo il pronto soccorso di San Vittore, impugnava una lametta che teneva appoggiata al collo minacciando di farsi del male. Mi sono avvicinata e gli ho detto: Stai tranquillo, mettiamo tutto a posto, non sei tra nemici. L'uomo ha restituito le lamette e si è affidato a noi».
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