Novant'anni dopo è ancora un cold case, un delitto senza colpevoli, una strage senza giustizia. Più letale di piazza Fontana, più misteriosa di Ustica. Una strage con venti vittime, trecento indagati e nessun condannato. L'obiettivo era Vittorio Emanuele III, il re soldato, e a volerlo morto, come il padre Umberto, erano in tanti. Lui lo sa ma non se ne preoccupa. Così il 12 aprile del 1928 sale in carrozza per inaugurare la IX Fiera Campionaria, che celebra il decimo anniversario della vittoria della Grande Guerra. Lo aspettano per le dieci meno dieci, lo salva il ritardo: quando la bomba esplode, alle 9.50, la gente pensa a un colpo di cannone. Una donna affacciata al balcone con i suoi due bambini vede la scena e lo choc la uccide. È un massacro. Della famiglia Ravera di cinque persone ne sopravvive una, è tutta gente comune, la Milano di ogni giorno. Natalina Dellaca, una maestrina di 24 anni, che anche se convalescente esce di casa per vedere il suo re, un giovane meccanico, un'anziana pensionata. Sette donne, due fratellini di otto e tre anni, una bambina di dodici, una di cinque. E Luigi Mario Gea, 11 anni. Era stato il papà, un fattorino, a convincere la moglie: «Prendi con te il bambino, c'è il Re lo farai divertire». La conta dice venti vittime, sedici muoiono all'istante, i feriti sono quaranta. La bomba della Fiera è dentro un pacco nascosto tra un palo della luce e il suo basamento in ghisa collegato, attraverso un filo elettrico, a un congegno ad orologeria, al numero 18 di piazzale Giulio Cesare. Il pilone centuplica la forza della bomba, ogni scheggia, scrivono, diventa una pallottola. «Il re racconta l'Illustrazione italiana sebbene angosciato per la misera sorte delle innocenti vittime della strage» inaugura la Fiera. Nel pomeriggio andò a visitare i feriti, alle famiglie delle vittime mandò un suo assegno di cinquantamila lire.
C'è il fascismo al governo, ci sono le leggi straordinarie. Il capo della polizia Arturo Bocchini spedisce a Milano i due ispettori più in gamba che ha: Giuseppe Valenti e Francesco Nudi. A Milano arriva anche il sottosegretario agli Interni Michele Bianchi, Mussolini manda il capo di stato maggiore, console Valerio Lucchini. E scrive: «Portate per me dei fiori sulle salme degli innocenti colpiti a morte dalle bestie della criminalità dell'antifascismo impotente e barbaro». La taglia sull'assassino è di centomila lire. Qualche giorno prima sotto i binari della Milano-Piacenza e nella cantina dell'Arcivescovado hanno trovato una bomba ad orologeria. La perizia dice che la mano è la stessa. Li accompagna un biglietto con su scritto «viva la libertà». Per questo si indaga tra comunisti, anarchici e repubblicani. Fermano più di cinquecento persone, molti sono studenti universitari, trecento vengono rilasciate, due, gli anarchici Gino Nibbi, originario di Massa e Libero Molinari. Per la Milizia i colpevoli sono loro, per la Polizia no. Verranno assolti.
Arrestano anche Romolo Tranquilli, fratello di Secondo, meglio noto con lo pseudonimo di Ignazio Silone. Morirà per le torture ma non c'entra niente neanche lui. Così come non c'entra Umberto Ceva un trentenne bruno, con gli occhiali spessi, che faceva parte di Giustizia e Libertà, arrestato insieme a Ferruccio Parri, Riccardo Bauer e Ernesto Rossi. Si avvelena in carcere la notte di Natale del 1930. In una lettera scrisse: «Non ho fatto nulla, non ho visto nulla, non ho saputo che altri abbia fatto del male a una creatura umana». Sospettano di tutti, non si fidano più di nessuno. Tantomeno dei fascisti. Per Cesare Rossi, portavoce di Mussolini prima di diventarne nemico dietro la strage c'era lo squadrista Mario Giampaoli, segretario federale di Milano. La conferma: la strana sparatoria nella caserma della Milizia di via Mario Pagano due militi furono uccisi e due rimasero feriti. Ma zero pure qui. Indagarono i due portinai del numero 18, operai che avevano lavorato in Fiera, camerieri sopravvissuti per miracolo. Dopo l'armistizio le indagini s'interrompono e gli autori della strage di piazzale Giulio Cesare non verranno mai trovati. L'ipotesi, ultima, è che trovarli non conveniva più a nessuno, tutti spaventati che l'assassino fosse uno dei loro, una scheggia impazzita.
Mussolini aveva detto: «C'è ancora una parola che dovrà essere pronunciata prima che il tempo sfugga e l'oblio pietoso allontani dalla memoria l'episodio barbaro del 12 aprile: i morti, i feriti, i vivi vogliono palese ma severa giustizia». Oggi, novant'anni fa.
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